Malditesto

“It” di Stephen King: recensione libro

“Era odore di corruzione, una zaffata del sottomondo.”

E parlando di incoscienza ci ritroviamo a introdurre l’argomento dell’articolo: di cosa parla It, al di là di un clown eterno e mutaforma, e di un manipolo di ragazzini che prova a sconfiggerlo? Spariamo il nostro colpo migliore, come Bev: It parla di corruzione. Grazie al clown, direte voi, viene anche spiegato per filo e per segno! In effetti It offre ai perdenti agio e benessere pur di essere lasciato in pace e, nonostante le pessime premesse della loro vita d’infanzia, tra complessi, abusi e ansie, per ventotto anni questa corruzione funziona, e il successo li ottenebra quasi tutti. Vero, chiaro, ma non parlavamo della corruzione diretta, ovvero qualcosa per qualcosa – qualcosa di esecrabile. Questo aspetto è già fin troppo letterale nel romanzo, fra le cui pagine abbiamo vissuto il benessere misto infertilità – bizzarro controvalore – con cui It ha premiato i Perdenti che hanno lasciato la città. Parliamo invece della corruzione spontanea, insita nell’uomo e nella società in cui si è organizzato. E anche un po’ della corruzione materica, del disfacimento e della perdita dell’innocenza. Tutto ciò che avviene, insomma, nel momento in cui diventiamo adulti.

“Si può aver paura e funzionare lo stesso.”

Non è un caso che It si cibi di giovani, perché oltre che dei loro corpi si ciba anche delle loro paure. E benché gli adulti non abbiano meno paura dei bambini, i grandi indossano paure più elaborate, più contorte, più sofisticate. La sofisticazione è un processo di falsificazione. Una parola inoffensiva per indicare qualcosa di spregevole, una parola corrotta essa stessa. Proprio per questo l’altalenanza tra età adulta e infanzia è uno dei temi centrali di It, sia a livello di storia sia di narrazione, ed è anche un mantra niente male per la vita – strizzata d’occhio all’amichevole Steve di quartiere – quello secondo il quale occorre tornare bambini per capire come abbiamo distrutto le migliori armi che avevamo, e occorre pensarsi enormi, credere di potercela fare, per… beh, per farcela. Un bambino può tollerare il mostro sotto al letto, ma sopportare la distruzione della razionalità per un adulto può essere… insomma, chiedetelo un po’ al caro Stan Uris.

“Il solito fottuto scrittore, più svitato di un cavallo.”

Quando eravate piccoli vi sarà capitato come a tutti, ascoltando i discorsi dei grandi, di meravigliarvi di certe inutili complicazioni e di sentire che, voi sì!, avevate per quelle complicazioni una risposta così giusta, così definitiva, che vi sembrava incredibile che fosse solo alla vostra portata! Se vi è capitato, sapete anche che vi siete scordati quella risposta. Solo da piccoli avremmo potuto chiamare la mostruosità rappresentata da un pagliaccio che però è anche ragno, cannibale, mummia, fantasma, realtà e allucinazione, con la semplicità della sillaba “It”, ciò che non ha genere e che perciò è degenere, deviato, e ancora una volta, corrotto. Un gran peccato perdersi questa semplicità in italiano, con tutti i passaggi che ne derivano, ma meglio non farsi tentare dalle tante diramazioni offerte. E dunque, cominciando a ragionare da grandi abbiamo perso il senso di ciò che è genuino. Ci siamo sofisticati. Parliamo di mutui, di proprietà, di diritti, di assicurazioni, di bot, di spread (ma grazie a Dio anche di spritz), tutte cose che non esistono ma che ci paiono reali, solidi come i mattoni in cui investiamo i nostri risparmi. Indovinate un po’, di tutte queste cose è molto più reale un clown fuori di testa in attesa sotto un ponte – a proposito, l’ispirazione di Stephen King non era il killer travestito da clown Gacy – puah! Che volgarità! – bensì la strizza che lo prese un giorno in cui andava a ritirare l’auto dal meccanico come un comunissimo americano con gli stivali. Stivali che però facevano un rumore dannato su un ponticello che tagliava a metà un fiumiciattolo, e peccato che al tramonto in una città che non era la sua non ci fosse nient’altro all’orizzonte che lui, il rumore dei suoi stivali sul legno mezzo marcio e la convinzione improvvisa di un troll con occhi gialli da rettile che lo fissavano da sotto le assi. Non sappiamo se il pensiero di qualche migliaio di dollari in banca e dell’esattezza del giorno e della notte lo abbiano rassicurato in quel momento, ma siamo sicuri che sia stato piuttosto sollevato una volta superato ponte, e fiume ed eventuale troll – non si sa mai (quella città era Boulder, che poi divenne la zona libera de L’ombra dello scorpione… accidenti, ma qui rischiamo di starci fino a notte!).

“Si è mentitori perfetti specialmente con sé stessi.”

Non è un caso se in It gli adulti non sono in grado di vedere la verità sotto i loro occhi. L’orrore che li circonda, il male che opera in mezzo a loro. Non lo vedono, e a dirla tutta, a un certo punto hanno deciso che preferivano così. Preferivano dimenticare qualche bambino morto ogni ventotto anni, pur di continuare le loro vite. La stessa sorte è toccata anche ai perdenti, una volta cresciuti. Tutti hanno dimenticato. Tutti tranne Mike che si è preso l’impegno più gravoso (in fondo è o non è un bibliotecario? E il suo è o non è un mestiere onorevole per definizione? Va bene, sì, affidare a un bibliotecario la voce narrante è anche una scelta didascalica, ma restiamo in tema!). L’unico che ha scelto di non andare avanti pur di rimanere a guardia del forte. Messi davanti alle loro responsabilità, la prima cosa con cui hanno fatto i conti è stata la promessa che si erano fatti ventotto anni prima. Le promesse non mantenute, ecco un’altra porta verso la corruzione.

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