Le situazioni irrisolte fiaccano l’animo. Lo sfibrano. Sono la spina nel fianco che infastidisce e altera, spesso, l’umore. Avverti, una sorta, di sospensione che ti rabbuia. Vorresti avere i piedi per terra, essere certo di ciò che è successo perché lo comprendi. Hai tutti gli elementi per farlo. Quando sei all’oscuro di cose importanti, che ti riguardano direttamente, annaspi.
In Il giudice e il bambino di Dario Levantino finisci in un pezzo di storia d’Italia, brutta e terribile, che fa male solo al pensiero, al ricordo. La storia è quella del giudice Paolo Borsellino e del piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato, strangolato e sciolto nell’acido, entrambi vittime di mafia. La ferocia di una storia agghiacciante è stata trasformata, dallo scrittore, in una fiaba. I concetti forti sono fruibili a tutti senza sminuire nulla. Anzi, attraverso questa scelta letteraria, Levantino apre dei varchi umani che, in questa storia specifica, pochi riuscirebbero a vederli perché la crudeltà è tanta e forte che ha il sopravvento su tutto il resto. Borsellino, in paradiso, aiuta il giovane Di Matteo a uscire fuori da una sorta di sospensione che lo tiene legato alla sua tragedia. Gli sfugge la cosa più importante, che il padre non gli ha potuto dire. E lo fa Paolo Borsellino, ricordandogli che l’amore è l’unica libertà.
Il libro è delicato. È di una potenza emotiva straordinaria. La sensibilità con cui lo scrittore esplora le emozioni dei due protagonisti è rara. La prosa ti inchioda alla storia che ti resta nel cuore.
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“Il giudice e il bambino” di Dario Levantino, edizioni Fazi. Dream Book.