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“Diary” di Chuck Palahniuk: recensione libro

Ci ho messo un po’ a decidere se recensire o meno Diary. Se non ne ho parlato prima è per non rischiare di ripetermi, perché ci vuole la bravura di Chuck Palahniuk per riscrivere la stessa storia suonando sempre originale. Se fosse cinema Palhaniuk sarebbe Tim Burton. Riconoscibile alla stessa maniera: Burton lo riconosci dal tono dark ma rassicurante, dalla fotografia, dall’aria favolistica delle sue storie. O più semplicemente per la faccia di Depp pittata di bianco. Se fosse uno show televisivo Palhaniuk sarebbe i Griffin. Sempre puntuale, ma anche così strutturato e costruito da non solo riconoscerlo, ma anche aspettarselo. Però Diary è un libro che mi è piaciuto sin dalla prima pagina, e basta aprirlo in un punto a caso per ritrovarsi a leggerlo avidamente. Per cui forse vale la pena scriverne, anche col rischio di ripetersi, perché ok che se Diary fosse un episodio dei Griffin sarebbe “solo” l’ennesimo episodio tra tanti begli episodi, ma qua stiamo pur sempre parlando di un libro.

Ogni volta che qualcuno chiede il tavolo nove o il dieci, quelli accanto al camino, e poi attacca a lamentarsi per il fumo o perché fa troppo caldo, e chiede di cambiare tavolo bisogna bere. Basta un sorso di quello che hai sottomano. Per quella povera cicciona di tua moglie va benissimo lo sherry da cucina.
L’ennesimo giorno più lungo dell’anno. È un gioco che può fare chiunque. Questo in particolare non è altro che il coma privato di Misty.

Ogni cosa è un autoritratto. Ogni cosa è un diario.”

Diary di Chuck Palahniuk: recensione

Misty Maire Kleinman è una frustrata cameriera dell’hotel dell’isola di Waytansea, un’isola che molti definirebbero paradisiaca, e che invece rappresenta per la protagonista il più completo fallimento. Misty è una persona che ha mancato parecchi bersagli, personali e sociali. Per primo è un’artista mancata. Ha conosciuto il suo futuro marito durante l’accademia d’arte, quel Peter che la riempiva di speranze e di nozioni, che gli diceva che ogni opera in fondo è un autoritratto.
Poi è stata una moglie e una madre mancante: da un lato per aver deluso il marito, dall’altro per essere quasi sconosciuta a sua figlia Tabby. In ultimo riesce ad essere mancata persino come vedova, quando suo marito tenta il suicidio e invece finisce in coma. Adesso Misty tira avanti cercando di superare ogni giorno più lungo dell’anno ingurgitando alcool e aspirine, bevendo secondo ogni regola che s’è data, facendo la spola tra l’albergo e il letto di suo marito.

Per mezzo del suo diario aggiorna Peter di tutte le cose che sono capitate in sua assenza. Momenti in cui racconta, per il giorno in cui si dovesse svegliare, quanto la sua patetica vita sia riuscita a distruggere ogni cosa. Misty odia suo marito. Misty ama suo marito. Senza via di scampo, quasi che ogni sentimento che abbia guidato le sue scelte, fosse stato posato da una mano superiore, come fa l’artista sulla tela.

La felicità non ci lascia cicatrici da mostrare. Dalla quiete impariamo così poco.”

In ogni casa ristrutturata da Peter è sparita una stanza. La gente telefona perché la rivuole indietro. Sui muri che le hanno chiuse ci sono scritti strani messaggi. Frasi senza senso. Avvertimenti per qualcosa di grosso che sta per accadere. Il grafologo Angel Delaporte ne ha fatto una malattia. Li vuole decifrare e per questo chiede l’aiuto di Misty.

Da questo momento le domande si affastellano. Cosa significano quelle scritte? Perché Peter ha tentato di suicidarsi? Cosa significa lo strano silenzio intorno alla passata morte del suocero? Ogni volta che chiede dettagli sembra che l’uomo sia morto di una morte diversa. Perché l’intera isola sembra nascondere verità troppo difficili da digerire? Perché sua suocera Grace è così ossessionata dalla sua arte? E perché non riesce a rifiutare il pennello che le mettono a forza tra le mani?

Misty allora diventa l’ennesimo personaggio passivo di Palahniuk. Non per carattere, ma perché ogni altra persona sceglie al posto suo. Tutti quanti, tranne lei, sembrano sapere ciò che va fatto e ciò che è giusto fare. In un mondo che non riesci a leggere l’unica cosa che ti rimanere è fartelo leggere dagli altri. E se a un certo punto non ti dovesse più piacere la storia, non hai nemmeno la possibilità di allontanarla.

Oggi ha chiamato un signore da Long Beach. Ha lasciato uno lungo messaggio in segreteria, sussurrando e gridando, parlando lentamente e poi veloce, imprecando e minacciando di chiamare la polizia, di farti arrestare. Oggi è il giorno più lungo dell’anno, anche se ormai tutti i giorno lo sono.
Il tempo previsto per oggi è inquietudine crescente seguita da terrore conclamato.
L’uomo che ha chiamato da Long Beach, dice che gli è sparito il bagno.

[Incipit]

Mi rendo conto che è impossibile capirci qualcosa, ma è così che vuole l’autore, e chi sono io per mettermi di traverso?
Quello che posso dirvi è che nel libro tra le altre cose si parla di arte, di cosa rappresenta. Ci spinge a chiederci se è l’uomo che fa l’arte o se è l’arte che fa l’uomo. Si parla di consumismo, ovviamente, di come ha trasformato l’uomo, di come ha trasformato l’arte. Si parla di come combatterlo, se è possibile. In un modo simile a quello con cui la natura si risana a ogni ciclo. Come le mode, come le migrazioni estive verso l’isola di Waytansea, con le centinaia di turisti che la depredano con i loro denari, e la lasciano misera e svuotata di ogni significato.
Si parla di predestinazione, altro tema caro allo scrittore, e di come sia impossibile sfuggire al proprio destino. Ogni uomo in fondo è un Cristo che, per quanto si sforzi, non può allontanare da sé il proprio calice. Se questo calice rappresenta la mortalità o la miseria con cui l’uomo decide di spendere il suo tempo è una risposta lasciata al lettore.

Ci sono quelli che la storia la narrano e quelli che la nascondono. Palahniuk ancora una volta scarnifica fino all’osso. Nelle sue storie, la narrazione scompare del tutto. C’è solo la storia, sempre surreale e sopra le righe, e il suo stile tipico e impeccabile. Ogni parola sottratta alla narrazione viene spesa per organizzare il suo puzzle. Per smontare e rimontare. Per disorientare, per tessere la sua tela mortale. E al solito, per rimettere ogni pezzo al proprio posto, per capire di cosa si parla veramente, bisogna arrivare a girare l’ultima pagina. In altre parole, secondo Palhaniuk, per capire chi siamo veramente, dobbiamo arrivare all’ultimo giorno più lungo dell’anno.

“Diary” di Chuck Palahniuk, Mondadori, 2004. Malditesto.

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