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“L’invulnerabile altrove” di Maurizio Torchio: recensione libro

“Dove si va quando si muore? Alla domanda si potrebbe rispondere con “altrove”, un luogo immaginario, un non luogo. Una speranza? Un desiderio che ci sia un posto dove ritrovarsi, riunirsi? Qualcosa che ci dia un’illusione che la vita possa sopravvivere alla morte?

Un altrove invulnerabile, una fortezza dalla quale non si può tornare a dare testimonianza, o forse sì.

Questo libro è uno squarcio dimensionale, una porta che mette in comunicazione il qui e quell’ignoto altrove; dove non è il corpo la terra di mezzo, il punto di congiunzione tra i due mondi, ma la mente umana.
È una storia di un’amicizia tra punti lontani, di forme di amore e di ossessioni, una storia di diversità, di abbandono, di voci nella testa, della vita di Prima e di quella del Dopo, di confronto, di profondità, di cambiamento. Un altrove descritto come un purgatorio dove tutto è in continuo movimento, persino la sabbia e i fiumi e le persone, tutte queste cose insieme che fluiscono, si fondono, si perdono, senza tempo.

 

È la storia di una donna abitata dalla voce di un’altra donna vissuta cento anni prima, un’amicizia frutto dell’impossibile, che smuove sentimenti così veri, così carnali. I dialoghi tra le due donne che diventano pensieri, mentre i pensieri devono essere biascicati a voce alta per tenerli al riparo. La possibilità dell’impossibile per mostrare che potrebbero non essere così folli le voci che abbiamo nella testa, che potrebbe esserci una dimensione che non conosciamo, di cui non abbiamo prova, ma che per questo non è da escluderne l’esistenza.
Molto spesso quando vediamo persone parlare a voce alta, perse nelle loro vociferazioni, diciamo: “quello/a è matto/a”. La realtà diventa un punto di vista assoluto da cui osserviamo (e giudichiamo) gli altri, incuranti di essere sulla soglia di mille realtà (im)possibili.


E se alla fine i matti fossimo noi? Se fossimo noi i menomati, quelli che non sono in grado di “sentire” chi comunica dall’altrove? E, ancora, se soltanto a pochi fosse concessa la possibilità di varcare l’invulnerabile, se non fosse pazzia quella, ma capacità di spostarsi tra il conosciuto e lo sconosciuto?

Maurizio Torchio

Mi sono innamorata di Torchio, del modo in cui usa la lingua, del fascino prepotente della sua scrittura, questo tipo di prepotenza è la droga di cui non so fare a meno. È suadente la sua scrittura, densa, piena; è musica, è quel diverso di cui avevo e ho sempre bisogno, soprattutto ora; è lei stessa l’altrove in cui speravo e desideravo perdermi. Non rileggo mai i libri, tranne rare eccezioni, e questo lo è. So che avrò bisogno di ritrovare in futuro quelle parole che non riesco a lasciare andare, nemmeno adesso, a distanza di giorni. So che avrò bisogno di sentire quella palla, al centro del mio stomaco, rimbalzare ancora all’impazzata. So che avrò la necessità di rispecchiarmi di nuovo, di trovare altri sensi, perché dentro a questo libro piccolo ci sono universi da scoprire continuamente. Questo libro non ha una fine conosciuta, è scoperta continua, è altrove.

 

CITAZIONI:


“Le voci che i matti sentono in testa di solito non hanno una vita, e passano il tempo commentare la tua. E siccome ti conoscono bene, sono brave a umiliarti dove fa più male.
Hanno una buona memoria.
A volte imitano persone a cui tieni: una madre, un padre, sorelle, amanti… Per dirti esattamente quello che hai il terrore di sentire da loro. Quello che non avrebbero mai dovuto sapere. O provare.
E siccome le voci hanno il dubbio, come chiunque, di non esistere davvero, e siccome – come tutti – hanno il terrore di sparire, non stanno mai zitte. Fanno la radiocronaca anche di cose che puoi benissimo vedere da te […]”


“Tutti vogliono farsi chiamare predatori, ma per essere predatore devi uccidere tu, e uccidere in fretta. Se non fai in fretta sei un parassita, se raccogli chi è già morto sei uno spazzino.”


“Esistono semi che dormono mentre gli altri germogliano. Semi duri, che si svegliano solo al passaggio delle epidemie o del fuoco. Oppure se tagliati, scarificati, incisi. Sono la riserva, il serbatoio che permette alla specie di sopravvivere. Non si notano, aspettano, si preservano, fioriscono solo quando va male. E se nulla va male disseccano, si sprecano e si disperano. Ci sono contadini che danno fuoco ai campi, pur di svegliarli. E c’è chi si taglia nelle vasche da bagno non per far “uscire”, ma per lasciar entrare, finalmente, acqua tiepida – imbimbirsi, finalmente. Prendere vita. Smettere di zoppicare.”


“Io sono la metà spezzata di un idiota, e guardandomi Non posso fare a meno di pensare alla parte che manca, che mi manca. Sono sconcia. Sono una ferita aperta , e noi non siamo abituati alle ferite.”


“Sono bianchi, gli idioti, quando riemergono. Non scoloriti dalla luce: abrasi dal buio. […]Così sprofondano e così ci vengono restituiti. Leggeri. Persino tu, che non sei allenata, potresti sollevarli senza sforzo. Bambole di cartapesta. È strano che gli idioti non volino via, di giorno, col vento. Perché quello sono alla fine: spore.”


“Più che camminare avevano volato. Anzi nuotato, perché ognuno vaga e sbaglia a modo suo, ma con un’unica certezza: per andare veloci bisogna tentare i fiumi. Sono pericolosi, i fiumi, rigano la sabbia, come mani, unghie trascinate via, verso il lontano; il posto dove tutti vogliamo andare. Ci sono fiumi che ti riportano indietro. Magari è soltanto un’ansa. Magari il fiume, in quanto tale , va nella direzione giusta, ma per te, che sei così tanto più piccolo, diventa sbagliata. Oppure si infilano di colpo sotto la sabbia. Solo col tempo si impara a restare uniti anche nuotando, anche nella peggiore delle situazioni. Si impara a intrecciarsi prima di immergersi, a costruire navi come fossero torri, navi fatte di noi.”


“… Esistono dolori inutili, o che continuano anche quando non servono più.
Arti amputati che soffrono. Arti fantasma.
Campanelli che suonano, e non ci sono porte da aprire.”
“Ma io ricordo soprattutto le cose che non sono segrete, diceva Anna, le cose che ho ripetuto tanta gente, in tanti modi. Le cose che ho ballato insieme agli altri sono quelle che ricordo meglio, perché se uno dei movimenti è sbagliato qualcuno mi pestera un piede.
Non toccate i fili che collegano i vivi ai morti.
Come fossero a portata di mano. Come fosse facile afferrarli saltando nel vuoto.
Non toccate il teschio, che solo nei sogni scompare.”

 

“L’invulnerabile altrove” di Maurizio Torchio, Giulio Einaudi Editore. S(qui)libri.                                                           

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