Anonima Lettrice Italiana

“Le ripetizioni” di Giulio Mozzi: recensione libro, podcast, reading

Il libro di cui ci occupiamo oggi è Le ripetizioni di Giulio Mozzi, pubblicato da Marsilio Editori, candidato al Premio Strega 2021. Corsi e ricorsi quotidiani di giusto ed ingiusto, in un ondeggiare placido, che non può incontrare tutti i palati. Mozzi è un paroliere sopraffino, giocoliere con rasoi, incantatore, ipnotizzatore. Il male luccica fra le sue parole, limpido come avesse ragione, risonante alla stessa nota della noia, del vuoto, della ripetizione infinita.

La trama di questo libro insegue le varie vite di Mario, personaggio la cui vera azione è di non compierne alcuna durante tutto il libro. Vittima di se stesso e delle proprie elucubrazioni non proprio cristalline, ci porta in un caleidoscopio di racconti in cui tutto si somiglia e niente è davvero veritiero, anche se purtroppo tutto tende a sembrare reale. Vuole sposare Viola, nonostante una figlia con Bianca e i suoi rimpianti su Lucia, e nonostante parecchie, parecchie zone oscure della sua vita. Ne hanno anche le donne (e gli uomini) che circondano questo ménage, ma alla mia lettura, tra vittime perpetuanti e psicopatici da ricovero, il personaggio di Mario è sembrato unico; l’unico, cioè, che potesse smettere di essere quello che era, ovvero il niente totale, in balia del male.

Non è stata inesperienza da nulla leggere Le Ripetizioni, il cui titolo richiama il circolo infinito di corsi e ricorsi della quotidianità, in un ondeggiare sereno, di giusto e di ingiusto, in cui tutto esiste e niente vive. Di certo non dev’essere stato facile pubblicarlo, non immagino nemmeno correggerlo: arrivate alle ultime pagine e poi fateci sapere.

Sullo stile non si discute, Mozzi è un paroliere sopraffino, giocoliere con cocci di vetro; li lancia, li agita, ci incanta, ci taglia persino, ma lui non si taglia mai. Quasi mai, direi, fino al finale, le ultimissime parole – anche quella una selezione esemplare, l’unica possibile.

Il male luccica fra le sue parole, limpido come avesse ragione, e ci attira, di certo non ci ispira ma ci affascina la serenità con cui esso agisce, vive, semina e miete. E alla stessa risonanza vibra la noia, la quotidianità, l’abitudine; male e noia condividono un diapason nella ripetizione e ne Le ripetizioni.    

È impossibile leggere un estratto del libro senza rivelare qualcosa, perciò ne scelgo uno neutro, che però vi assicuro non rappresenta la potenza verbale dello scintillante eloquio di Mozzi.

I pensionati nella sala d’attesa – ci sono solo pensionati, oltre a Mario – non fanno che raccontarsi notizie. La loro salute, le persone del quartiere. Ogni tentativo di conversazione dopo poche battute si arresta.

La famiglia cinese che ha preso in gestione il bar dell’angolo. Il calzolaio che ha chiuso, e adesso dove andremo per le scarpe? Il nuovo parroco, del quale si dice. Che cosa si dice? Troppo bello per fare il prete. Valentini, che non si sa più niente. La Soranzo, che non esce più di casa. I coniugi Rampazzo, che hanno ricominciato a uscire, tutti e due col deambulatore. Certo che lei è stata forte. Lui è diventato magrissimo, prima era una botte. Una notizia viene detta, ripetuta, qualcuno le fa eco, poi basta.

A Mario sembra di vederle agitarsi nella sala d’attesa, queste conversazioni stentate: compressioni e decompressioni dell’aria che alla svelta si dissolvono. Le notizie non ci interessano: basta che distolgano la nostra attenzione da ciò che siamo, e la loro funzione è compiuta. “ Tanto, ovunque voglia andare il mondo, posto che da qualche parte vada, ci andrà con noi o senza di noi. Siamo ininfluenti. Non lasciamo tracce.

Un libro che ipnotizza, ecco come mi sono sentita: non nego che in più occasioni avrei voluto lasciarlo stare, posarlo, dimenticare i peccati mortali elencati, addirittura allertare un contro-tifo, ma per onestà intellettuale devo ripetere che ho trovato della stoffa letteraria.

Per questo sono rimasta attraverso le violenze, gli incubi, la morbosità, per godere delle parole e dell’esposizione, non certo della storia; forse manca esattamente la catarsi che uno continua ad attendere per tutto il libro, ma in quel finale amputato, monco, orfano, ci ho trovato tutta la morale che mi occorreva per sentire di aver terminato la mia esperienza ed esserne uscita intatta.

Fino alle ultime due parole del romanzo, starete ancora a chiedervi se questa cosa è possibile; rendere positiva, cioè, questa esperienza di lettura. Senza quelle due parole avrei detto di no; ma dato che ci sono, sia che si rivolgano a noi, sia che facciano parte di un monologo interiore, o persino che definiscano i limiti di un incubo, permettono il ragionevole dubbio che ho atteso per tutto il libro.

Sempre con gli stessi criteri di prima, uno stralcio che non riveli la trama.

A destra del palco, nell’angolo meno illuminato della pista, Mario vede un ragazzo che balla da solo, anzi balla in un modo tale che sembra balli da solo, anche se le ragazze stanno a due passi da lui; il ragazzo balla a modo suo, con dei passi che non sono passi da ballo, balla come ballerebbe uno che per paura non abbia mai ballato in vita sua e che abbia deciso, pur conservando intatta la sua paura, di buttarsi nella pista a ballare;

balla con le braccia rigide lungo il corpo, le mani tese all’infuori, la schiena e il collo dritti, gli occhi quasi sempre chiusi; oppure alza le braccia e unisce le mani dietro la nuca, buttando la testa all’indietro, come uno che dorma e mentre dorme sogna di ballare, e se aprisse gli occhi si accorgerebbe che sta ballando veramente;

e fa tutto questo, il ragazzo, camminando lentamente all’indietro e in circolo, come uno che si muove senza voler sapere dove va, un esploratore del mistero, un viaggiatore che potrebbe attraversare il mondo incontrando solo le immagini di sé stesso riflesse all’interno delle palpebre, un giovane uomo che non può essere amato da nessuna e non può essere ferito da nessuno, eppure, e questo si percepisce guardandolo ruotare offrendo sempre le spalle indifese, eppure disponibile a tutto, indistruttibile.

Quello sono io, pensa Mario: e in effetti è lui.

Secondo i manuali di sociologia criminali uno dei primi sintomi della psicopatia è quello di “vedersi vivere”, guardarsi sempre attraverso il punto di vista di un altrui esterno a noi; vedere se stessi muoversi nel mondo senza “abitare” davvero il proprio interno, permette alle menti instabili di immaginare che le azioni non abbiano reali conseguenze, o di dissociarsene. Il personaggio di Mario potremmo inquadrarlo facilmente come un fantastico futuro psicopatico, tuttavia per tutto il libro non ho mai visto la sua felicità. Mi ha infastidita, l’ho giudicato, l’ho temuto e detestato, ma non l’ho mai visto felice; come non ho visto personaggi che godevano di essere cattivi, al massimo di essere liberi. “Cattivo” è una parola che abbiamo inventato. Non esiste la cattiveria in natura; al massimo l’inerzia.

Non c’è compiacimento, né presa di posizione, c’è solo la cronaca di ciò che avviene. Non c’è nemmeno una morale, né una bussola etica nelle descrizioni, ma solo nudi fatti. È un male meccanico, che si muove ma non muove niente altro che se stesso. Come meccaniche sono le ripetizioni del quotidiano, delle vite di tutti noi, che si somigliano infatti; e meccaniche e sono le ripetizioni anche del male e della depravazione; quando tutto diventa solo un riproporre gli stessi schemi e le stesse dinamiche, anche l’idea di una conseguenza spirituale, dello stesso giudizio universale che speravo arrivasse a scuotere le pagine, svanisce sfumando.

Non c’è enfasi, non c’è partecipazione e pertanto non può esserci nemmeno una condanna, anche se davvero ci ho sperato fino all’ultimo. Per consolarmi l’ho condannato io stessa, che tanto i lettori sono giurie, giudici e boia: Mario potrebbe scegliere di non fare, e invece sceglie di non essere, subordinando ad altri master le decisioni (Viola che accetta di sposarlo, Santiago che accetta di dominarlo) ma senza ammettere che anche questa non scelta è una decisione. Mario non è debole, debole è forse Viola, che è una vittima, debole è Agnese, ma Mario è soltanto vuoto: e secoli di letteratura e narratologia non meno della religione, ci hanno insegnato che nel vuoto è il vero male.

Mozzi ha nascosto il personaggio di Mario dietro la logica del nichilismo per disarmare il nostro giudizio nel vederlo agire contro ogni etica; ma è dal ginnasio che sappiamo tutti che di logica si disadorna il mondo, si spoglia la misericordia e fondamentalmente di logica si crepa.

L’unico personaggio che non ha annientato ogni valore è Bianca, Bianca che è schizzata, Bianca che è matta. Bianca che è l’unico personaggio per cui Mario mostra un po’ rispetto, insieme a quello di Lucia (quindi fondamentalmente per il protagonista unico modo per meritare rispetto è essere pazzi o morti, che forse per una morale che mi è sfuggita nel libro, è l’unico modo per essere innocenti; perché se si è vivi prima o poi si finisce comunque per essere colpevoli di qualcosa).

Ma Lucia non è che un rimpianto giovanile, come Annabel, primo amore del professor Humbert (“Il veleno era nella ferita…”, Lolita); l’unico personaggio innocente, che viene costruendo la propria logica e non la sottomette a nessun dogma, né quello del nichilismo né della convenienza, è Bianca, che agirà sempre senza male. Gli errori che compie sono incolpevoli, non sono una scelta fondata; al massimo possono venire dall’ignorare alcuni aspetti di Mario, o dall’albero avvelenato della sua malattia. Perché come dicevamo, Bianca è fuori di testa.

Però è anche la madre, simbolo di pienezza, il contrario del vuoto; la donna che non chiede, la redenzione silenziosa, la misericordia del non sapere, la grazia del nulla a pretendere. L’unico personaggio che nel mio tribunale verrà salvato.

Le ripetizioni” di Giulio Mozzi, edizioni Marsilio, 2021. Anonima Lettrice Italiana.

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Ali

Leggo, scrivo, parlo, ma soprattutto parlo. E poi leggo e scrivo.

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