Vorrei parlarvi di una piccola e semisconosciuta perla della letteratura italiana che ho avuto la fortuna di cogliere da uno scaffale impolverato di un mercatino dell’usato: “Tutto il miele è finito” di Carlo Levi.
“Tutto il miele è finito” rivela la Sardegna per come gli occhi di Carlo Levi l’hanno vista e conosciuta
Questo libro non ambisce ad avere una trama, esso rivela solo la Sardegna per come gli occhi di Carlo Levi l’hanno vista e conosciuta; e allora quest’opera si presenta come una collezione di eventi, di incontri con persone e paesaggi che gli sono rimasti nel cuore, trattenuti dalle maglie della memoria: il tutto prende quindi le forme dello scorrere toccante di immagini, impressioni che, proprio come accade sfogliando un album fotografico, fa emergere i ricordi, li smuove, li richiama da quell’apparente infinito magazzino coperto di polvere che è, appunto, la memoria.
Gli occhi di Carlo Levi sono come «una macchina fotografica con l’obiettivo aperto», citando Christopher Isherwood di “Addio a Berlino”
Leggendo questo libro, mi sono tornate alla mente le deliziose pagine di “Addio a Berlino” di Christopher Isherwood nelle quali l’Autore si proponeva di realizzare un obiettivo stilistico: ciascuna descrizione di ciò che fosse passato innanzi ai suoi occhi si sarebbe dovuta dare come se, quegli stessi occhi, fossero stati «una macchina fotografica con l’obiettivo aperto», e ciò è quanto è in grado di realizzare anche Carlo Levi, e il risultato è magico.
Lo stile con cui “Tutto il miele è finito” è stato scritto rende i resoconti di Carlo Levi reali ai nostri occhi
E il linguaggio supporta con forza, arricchendola, questa convinzione, in quanto fornisce pennellate di realtà tali da rendere i resoconti che ci fornisce dei suoi diversi viaggi in Sardegna – il primo, nel 1952, e l’ultimo dei quali a 10 anni di distanza dallo stesso, nei medesimi luoghi – palpabili, tangibili, reali ai nostri stessi occhi. È come avere di fronte così quegli antichi nuraghi cavi di silenzio o quelle facce bruciate dal sole, raggrinzite dal tempo che ti scrutano incuriosite e caute, eppure disponibili, dalle loro caverne adibite a dimore e, nonostante ciò, facce esprimenti fierezza. Oppure, è quasi come riuscire a udire, come fossimo presenti, le tristi o felici storie dei contadini, di chi ha riscattato una terra che è sempre stata sua, prima col sudore, le lacrime e la fatica, che non possono mancare affinché la terra gli restituisca i suoi frutti, e ora sua anche con la proprietà, per chi se l’è potuta permettere, o le storie, con valenze diverse, dei pastori e dei loro greggi o, con un salto temporale accentuato dal paesaggio, dall’attività lavorativa, dai dettagli delle città che connotano l’avvenuto passaggio da un mondo a un altro o, meglio, da un’era a un’altra, le storie dei minatori, così nuove per l’epoca eppure, come le altre, così attuali, oggi.
Il contrasto tra la Sardegna delle tradizioni e quella della modernità è colto magistralmente da Carlo Levi
E questo contrasto di epoche, reso vivido e magistralmente delineato dalla curiosità e dalla perizia dell’occhio e della penna di Carlo Levi, riguarda anche il rapporto tra il primo suo viaggio e il suo ultimo, 10 anni più tardi: la sempre presente distanza tra arcaico e nuovo, tra tradizionale e moderno, tra ciò che era in uso, nel costume della regione, e ciò che si è perduto per sempre, che è caduto in disuso nelle pratiche cittadine. Ad esempio, riferendosi alla città di Carbonia, Carlo Levi coglie infatti questa duplicità: «Le storie individuali degli abitanti di Carbonia sono ciascuna un romanzo di povera vita moderna, in un luogo chiuso e isolato al di là di ogni sforzo di fantasia. C’è chi è naufragato qui e non trova più, da anni, il modo o il danaro per fuggire, chi vi è piombato per il miraggio di una impossibile fortuna, chi accetta con fierezza il duro lavoro della miniera e chi agisce per migliorarlo. Certo, i discorsi che vi senti sono tutti appassionati, pieni di totale partecipazione, sono tutti volontà rivolta al presente: è l’altra faccia della Sardegna, totalmente ignara di pastori e di nuraghi, con un tempo che si conta a giorni e a ore e non a millenni.»
“Tutto il miele è finito” è un libro difficile da collocare in un genere; a esso si attaglia forse di più la definizione di memoir
Ora, giacché il libro nasce come «commento o prefazione a un libro di documentazione fotografica da pubblicarsi in Germania», questo scritto «non è né un saggio, né un’inchiesta, né un romanzo, ma un semplice, laterale capitolo di quella storia presente che tutti viviamo, o scriviamo, in noi e fuori di noi, mi sembra possa assomigliarsi piuttosto a un ritratto, a un tentativo, soltanto accennato e parziale, di ritratto di una persona conosciuta nel tempo, il cui viso racconta e comprende, oggi, i diversi momenti della sua storia».
Ogni pagina di “Tutto il miele è finito” è una tela su cui Carlo Levi tratteggia scene di vita vissuta in una Sardegna «dura e nuda come un sasso ma sempre e ancora affascinante»
Nuovamente, Carlo Levi, come già in “Cristo si è fermato a Eboli”, dimostra una capacità rara di rendere conto di ciò che vede in modo lirico, preciso, espressivo, quasi come se, al posto di nere parole su bianchi fogli, ogni pagina di questo libro fosse invece una tela sulla quale il pittore Levi (era infatti anche questo) tratteggia una sua personale e deliziosa raffigurazione impressionista delle varie scene sarde che ha potuto conservare e custodire nella sua memoria, nel suo cuore. Qui, per concludere, il ritratto colorato che usa, delle volte, tonalità più accese, delle altre, tonalità più spente e che si avvale di colori caldi o freddi, a seconda dell’occasione, e la ricca ed esaustiva descrizione antropologica di vaste parti della Sardegna si fondono in modo mirifico.
“Tutto il miele è finito” di Carlo Levi, edizioni Einaudi Editore. A voice from apart.