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“Un mondo nel mondo” di Stephen Spender: recensione libro

È una galleria di ricordi quella che si svolge davanti ai nostri occhi grazie alla lettura di “Un mondo nel mondo”, l’autobiografia di Stephen Spender, uno dei tre poeti, insieme a Wystan H. Auden e a Christopher Isherwood, del cosiddetto “Gruppo degli anni ‘30”, una «nuova generazione che proclamava che la civiltà borghese era giunta alla fine, e che dava per scontato una prossima rivoluzione, che prendeva posizioni precise e che era esposta, perfino nella sua arte, all’irrompere di eventi pubblici, che non si occupava granché dello stile e non sapeva niente di Parigi». E lo è stata, invero, anche per lui, per Stephen Spender, che, proprio come si sfilano una a una le perle di una collana, sfila dalla memoria i ricordi della sua vita presentandoceli in modo così suggestivo, carico di emozioni, sensibilità, affetto e molta nostalgia da meravigliare, incuriosire, stupefare e, per certi versi – è il caso di dirlo –, anche un po’ invidiare.

In “Un mondo nel mondo” il poeta Stephen Spender racconta di sé

Ciò che viene qui raccontato è l’evoluzione della persona Stephen Spender nelle diverse sfaccettature che l’hanno costituita, e che per la maggior parte caratterizzano tutti noi, dallo sviluppo del suo pensiero, della sua maturità, sino a quello della sua sessualità (avendo avuto esperienze amorose con uomini e con donne) e, in ultimo, della sua poesia.

Come nasce l’amore di Spender per la poesia

A tal proposito, ho trovato affascinante scoprire come, quando e perché Spender si sia appassionato alla poesia. È un ricordo che risale a quando lui aveva nove anni. Il «seme della poesia» fu piantato in lui allora.

La famiglia Spender decide di trascorrere le vacanze estive in un posto chiamato Skelgill Farm, presso Derwentwater. Nella campagna che si estende di fronte al loro albergo, i bambini giocano. E, in uno scenario del genere, Spender ci racconta:

«Questa campagna è fusa nella mia memoria con la mia prima prolungata esposizione alla poesia. Poiché qui mio padre mi leggeva le semplici ballate di Wordsworth, “We are Seven”, “A Lesson to Fathers”, “The Lesser Celandine”. Le parole di queste poesie cadevano nella mia mente come freddi ciottoli, puri e lucenti, e portavano con sé un’atmosfera di pioggia e tramonti e il senso della sacra e segreta vocazione del poeta.

«Nelle sere calde, mentre ero già a letto a Skelgill Farm, sentivo il mormorio della voce di mio padre che leggeva a mia madre i poemi di Wordsworth. La voce fluiva come un fiume attraverso il paesaggio, sopra il quale le montagne si levavano fino al cielo.

«Dopo questa esperienza, il mistero e il piacere della poesia rimasero».

Che cos’è per lui la poesia?

Stephen Spender
(Fonte: www.writersandfreeexpression.wordpress.com)

Relativamente alla poesia, Spender pure incorrerà in uno sviluppo del senso che, per lui, questo concetto assumeva: inizialmente, la poesia per lui è una forma d’arte “descrittiva”, “immaginativa” e «bucolica» come quella di «Wordsworth», legata cioè a «un mondo separato da quello reale, un mondo di immagini e melodie di parole, lontane dalla vita di ogni giorno»; a Oxford, invece, dopo l’incontro con Auden, la sua idea di poesia divenne quella di una forma d’arte intesa come «uso del linguaggio che [rivela] la realtà esterna come simbolica coscienza interiore», nutrita di riferimenti politici, come l’insegnamento di Auden indicava dovesse essere.

L’influenza del Bloomsbury Group

Non vi è dubbio che, come per qualunque altro artista, la possibilità di entrare in contatto con un vivo ambiente cultural-letterario produsse degli effetti anche su Spender. E il vivo ambiente cultural-letterario che respirò e del quale in parte si nutrì fu quello del “Gruppo di Bloomsbury”, tra le cui personalità si annoveravano artisti del calibro di Virginia Woolf, per fare un esempio. Queste, per stessa ammissione di Stephen, rappresentarono una vera e propria famiglia e loro – i membri di questo prestigioso club letterario – assurgevano al ruolo di veri e propri «genitori». Pagine bellissime, delicate e franche sono dedicate ad alcuni membri o “associati” – come Thomas Stearns Eliot – del Club di Bloomsbury.

In “Un mondo nel mondo” trovo che Stephen Spender tenga celato il suo lato più intimo

Vi è un punto che non posso non fare emergere, se voglio presentare questo libro nel modo più onesto di cui sono capace: leggendo questa straordinaria autobiografia, ho avuto l’impressione che Spender non si sia messo completamente “a nudo”. Sebbene lo abbia fatto per gli altri protagonisti del ‘900 di cui ha parlato e dei quali ci ha regalato degli splendidi ricordi, compiendo vere e proprie lucide analisi, ciò che scopriamo della sua vita, quantunque sia tanto e non possiamo dubitare della sua sincerità, appare sempre presentato in modo tale che il lettore, leggendo quei fatti che lo riguardano, abbia davanti un vetro smerigliato, oppure come se davanti ai propri occhi il lettore avesse un corpo nudo sul quale è ricaduto un sottilissimo, ma a grana spessa, velo bagnato che sì rimarca i tratti, le linee, di quel corpo nudo, ma impedisce di osservarlo nella sua chiarezza, privo cioè di filtri “percettivi”. Forse, però, questo può essere dipeso dal suo essere inglese… Come dice il figlio, Matthew Spender, nella presentazione all’autobiografia del padre, «la cultura anglosassone impone un certo stoicismo verso l’affetto e l’intimità»; ora, per il fatto che Spender (Stephen) è cresciuto in un periodo di «decadenza puritana», che, a differenza del puritanesimo, il quale nomina il comportamento che condanna, «considera il nome stesso indecente e finge che l’oggetto dietro il nome non esista finché non viene nominato», questo suo atteggiamento di “timidezza letteraria” non può essere biasimato. In alcun modo, comunque, inficia il piacere della lettura e il piacere della scoperta delle idee, dei pensieri, delle relazioni, affettive e amicali, e della vita di questo grandissimo poeta inglese.

 

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“Un mondo nel mondo” di Stephen Spender, edizioni Clichy Editore. A voice from apart.

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