Due straordinari libri del XX secolo su Istanbul

Orhan Pamuk e Ahmet Hamdi Tanpınar, “hüzün” e “huzur” nella città millenaria.

Bosforo, lungomare e la silhouette della città che sorge dal mare.
Vent’anni fa i lettori hanno scoperto i libri di un autore turco, allora cinquantenne che si avvicinava rapidamente al picco di fama letteraria mondiale, Orhan Pamuk, Premio Nobel per la Letteratura 2006. Vorrei tornare a uno dei suoi libri pubblicato nel 2003:
İstanbul – Hatıralar ve Şehir (in italiano pubblicato con il titolo “Istanbul – I ricordi e la città”), un libro sull’altra città eterna, quella dell’Est, Istanbul o Costantinopoli. Il libro è un denso racconto della storia della città e della sua storia culturale ottomana. Racconta anche come gli stranieri occidentali hanno visto Istanbul, città che con il passaggio dall’ottocento al novecento perde molto del suo carattere cosmopolita fra ovest ed est. Racconta la storia culturale di Istanbul nel primo novecento che si intreccia con il tessuto della storia personale dell’autore e della sua famiglia. Le esperienze allo stesso momento sono sempre individuali e collettive.
Pamuk, nato a Istanbul nel 1952 non ha mai lasciato la sua città e in un certo senso non ha mai lasciato l’Istanbul della sua infanzia, circostanze che per la sua creatività sono state essenziali e indispensabili. Pamuk nacque da una famiglia benestante. La casa a cinque piani (lui dice “una specie di Museo della Famiglia”) della sua famiglia allargata si trova nel quartiere Nişantaşı, a nord dei quartieri storici Galata e Pera. Il giovane Pamuk cresce a Nişantaşı durante un preciso periodo della storia di Istanbul, città la cui storia si conta in millenni. Sono gli anni cinquanta del secolo scorso. Il ceto sociale di Pamuk fa parte di una società in piena sintonia con il XX secolo: modernizzare, occidentalizzare, demolizioni senza scrupoli, ristrutturazioni sono le parole d’ordine del periodo, “sbarazzarsi dell’impero caduto”. Ma negli occhi di Pamuk era ancora conservata molta della vecchia bellezza dell’Impero Ottomano e lui deplorava la bruttezza del presente. Il racconto della storia personale segue le sorti della famiglia fino agli anni settanta, la loro situazione economica sempre più precaria, il fallimento del matrimonio dei genitori e i primi tentativi professionali abbandonati dell’autore.
Dopo le devastazioni della prima guerra mondiale il vecchio Impero Ottomano crolla e nel 1923 nasce la Repubblica Turca. Nişantaşı (come tanti altri quartieri di Istanbul) prima del crollo è stato un quartiere di una raffinatezza ottocentesca ottomana. Cominciando con gli anni cinquanta questa bellezza di una cultura morente svanisce rapidamente. (Oggi Nişantaşı è uno dei più facoltosi quartieri della metropoli.)
La struttura di tutti i quartieri è ben documentata nelle vecchie carte del Plan Cadastral d’Assurances dell’ingegnere Jacques Pervititch, carte con grande quantità di informazioni di cui anche Pamuk parla nel suo libro (copie digitalizzate sono scaricabili da tanti siti). La mappa presentata qui descrive la situazione del 1925 e si vedono già grandi terreni vuoti di vecchi giardini che aspettano nuovi edifici, situazione molto significativa per Istanbul per i decenni a venire. L’illustrazione mostra, un po’ a sud del centro, la Grand Rue Techvikie (Teşvikiye Avenue), dove nel 1951 la famiglia Pamuk costruisce una nuova casa. Al nord (in giallo) si vedono ancora tante abitazioni in legno.
Pamuk durante la sua gioventù è stato sempre in stretto contatto con gli ambienti “di una città di rovine, di ruderi e una tristezza del tipo fine-dell’-impero”, un periodo che allo stesso momento era un periodo di fortissima e forzata occidentalizzazione. In una città dove i vari strati di vita si accumulano da millenni chi ha una certa sensibilità sarà facilmente contagiato con un forte sentimento di caducità e del tempo che passa. Pamuk dice che così ha acquisito un sentimento di profonda solidarietà con i suoi concittadini, nonostante la povertà e l’abbandono di interi quartieri.
Pamuk usa la parola “hüzün”, non come più basilare parola turca per la parola “malinconia*, tristezza*”, ma in un modo più sottile e complesso, definisce “hüzün” come ” malinconia di natura collettiva e condivisa piuttosto che privata”. Sottolinea che la parola porta una lunga tradizione filosofica nella cultura islamica, e sia più un campo semantico e lessicale. Pamuk dedica alcuni capitoli del libro a questa sfumatura di malinconia, malinconia come sentimento condiviso di un’intera città. Per lui è infatti una chiave di volta nella comprensione di Istanbul, della sua popolazione. Il libro di Pamuk è costruito intorno al pensiero che sia la storia della città dopo la caduta dell’Impero Ottomano la causa di questo sentimento comune, un sentimento che va oltre le vedute della città viste dal mare. È la realtà di una civilizzazione svanita, ma allo stesso momento sempre ben visibile nel suo patrimonio architettonico, la causa del dolore, un dolore in prima linea dei cittadini non dei visitatori.
* (nelle traduzioni inglesi si trova la prima forma, invece in italiano la seconda, ma sempre in un modo poco consistente e uniforme; il problema resta nella necessità della lingua non-turca di trovare equivalenti per le due parole “hüzün” e malinconia)
Come nella storia della malinconia dell’Ovest, hüzün nella tradizione islamica qualche volta è stata classificata come malattia, come da Ibn Sina (ad ovest meglio conosciuto sotto il nome Avicenna), facendo ricorso alla “passione nera” degli antichi greci. Pamuk sostiene che hüzün nel caso di Istanbul non porta il carattere di una malattia piuttosto quello di una scelta. Pamuk dice che “hüzün dà un senso di dignità” a coloro che soffrono, è non soltanto paralizzante ma offre una “licenza poetica ad essere paralizzati”. Pamuk scrive:
“La tristezza che coltiva lo spirito di sopportazione nei momenti di ristrettezze e miseria, porta a una lettura a rovescio della città. Dal momento che mostra la sconfitta e la povertà non come un risultato ma come una condizione di vita a cui si è stati predestinati, è un atteggiamento sia dignitoso sia illusorio. Così la miseria, la confusione mentale e il dominio del chiaroscuro, penetrati nell’anima di Istanbul come una malattia inguaribile che si considera alla stregua di un destino, si vivono non come un insuccesso o una mancanza di capacità, bensì come un onore.”
È questo il paragrafo in cui Pamuk elabora la sua teoria e sguardo del fenomeno “hüzün” in modo più denso e analitico. Troviamo qui un attraente ragionamento per riflettere, fondato su una tradizione secolare. Certamente a questo punto servirebbe anche un richiamo alla prudenza: l’analisi di Pamuk è stata pubblicata vent’anni fa, e dopo tutto cambia di nuovo. Oggi una nuova generazione deplora le sue perdite in una megalopoli di 17 milioni abitanti. Una città di queste dimensioni per un individuo non è più tangibile nella sua interezza (e forse non è stata mai tangibile) e la società di massa fa fallire ogni tentativo di analisi basata sulla psicologia individuale. Sarebbe come affrontare i problemi del traffico urbano con i modelli della fisica quantistica. Insomma, l’analisi di Pamuk forse porta un valore per comprendere comportamenti e psicologia di alcuni ceti sociali di una società urbana, in certi luoghi e a certi tempi, chiaramente è valida al confronto con intellettuali, scrittori in particolare, in cui si può postulare con una certa sicurezza la presenza di sensibilità imprescindibili.
Quando Pamuk ha pubblicato il suo libro su Istanbul nel 2003 ha potuto invocare la testimonianza dei “Quattro malinconici di Istanbul” a riguardo della importanza del concetto di hüzün.Yahya Kemal [1884 – 1958], Reşat Ekrem Koçu [1905 – 1975], Abdülhak Şinasi Hisar [1887 – 1963] e soprattutto Ahmet Hamdi Tanpınar [1901 – 1962] erano autori e intellettuali turchi del XX secolo con autentica esperienza della vita e dell’intero periodo tardo ottomano. Questi autori sono stati contemporanei del giovanissimo Orhan Pamuk e più tardi le sue stelle guida quando lui stesso diventa scrittore e intellettuale, un vero passaggio del testimone.
“… le poesie, i romanzi, i racconti, gli articoli, le memorie e le enciclopedie di questi quattro personaggi … mi hanno avvicinato all’anima della città. Questi quattro scrittori tristi, con il loro atteggiamento complesso e creativo fra il passato e il presente, oppure, come piace dire agli occidentali, fra l’Oriente e l’Occidente, mi hanno aiutato a conciliare l’arte e la letteratura moderna con la vita e la cultura della città in cui vivo.”
“Abdülhak Şinasi Hisar … afferma: “Tutte le civiltà, come gli uomini nelle tombe, sono transitorie. E noi sappiamo che le civiltà scomparse non torneranno più, come i nostri morti.” Il punto che accomuna questi quattro scrittori è la poeticità che danno a questo sentimento, che nasce proprio dalla consapevolezza della perdita.”
Tutti e quattro questi autori erano rappresentanti del hüzün nella letteratura di Istanbul. Ma ad uno di loro vorrei dedicare un po’ più spazio.
Tanpınar per Pamuk è stato un punto di riferimento importantissimo. È nato a Istanbul da una famiglia vicina all’amministrazione della corte ottomana. Prima professore al liceo, nel 1939 diventa professore di Lingua e Letteratura turca e membro della Assemblea nazionale, un intellettuale sempre in giro per il mondo. Anche per questo Tanpınar è considerato come la voce turca più eminente “del tempo che passa.” Il romanzo “Huzur” di Tanpınar per Pamuk è il più importante romanzo mai scritto su Istanbul (pubblicato nel 1949). I suoi protagonisti sono saldamente nelle mani e sotto il controllo del hüzün ˆ, sentimento determinante delle loro vite fine alla fine amara. Per questa ragione qui un piccolo excursus:
Ahmet Hamdi Tanpınar e Yahya Kemal nei primi anni venti esplorano a piedi i quartieri più poveri di Istanbul. La base economica dell’impero e della città negli ultimi decenni si è dissolto sempre di più. Il declino è evidente. Tanpınar scrive:
“Considero come un simbolo l’avventura di quei quartieri distrutti. Per dare questa faccia solo a un rione della città, quanto tempo e quanti avvenimenti sono stati necessari? Queste persone, dopo quante conquiste, quante sconfitte, quante migrazioni sono venute qui, e dopo quante trasformazioni e adattamenti hanno raggiunto questo aspetto?”
La descrizione dell’abissale caduta del vecchio impero allo stesso tempo assume la funzione di un nuovo nazionalismo che propone un’identità culturale come strumento di una possibile rinascita, richiamando un’identità culturale immutata. Varie nazioni nel mondo, sia vincitrici che perdenti, dopo le due guerre mondiali hanno fatto ricorso a simili tecniche per ridefinirsi, tecniche purtroppo spesso ab initio inclini alla gran menzogna di Ibsen perché la realtà infatti è sempre più poliedrica.
Nel romanzo “Serenità” [Huzur] di Tanpınar il giovane Mümtaz perde il padre e la madre durante la guerra che precedette la fondazione della Repubblica Turca nel 1923. Il ragazzo di undici anni si trasferisce dalla famiglia di un cugino di 23 anni più grande di lui, İhsan, a Istanbul. İhsan è un professore, storico, letterato e intellettuale a casa nel mondo. İhsan e sua moglie Macide vivono in una bella casa nel quartiere Şehzadebaşı della vecchia Istanbul, insieme con la madre di İhsan e i suoi figli Ahmet e Sabiha. Nell’ampia biblioteca di questa casa, piena di libri e oggetti, nasce e si stabilisce il primo contatto fra Mümtaz e la Storia, anzi la Storia Ottomana, un contatto che farà diventare anche lui uno storico.
Siamo nell’anno 1939, la città di Istanbul è in pessime condizioni, conseguenze del crollo del vecchio Impero Ottomano che ha lasciato rovine e segni dell’abbandono dappertutto, non solo sugli edifici ma anche nella mente della gente, “Cambiamento d’epoca” si dice. Ma si parla già d’una possibile nuova guerra mondiale.
Mümtaz entra in un antiquariato e vede accumulate in scatole i tomi della Storia, delle scienze, vecchie magazine e riviste, fotografie, un cumolo del sapere e della stupidità:
“Visto nel suo complesso, era un bizzarro insieme che appariva come il risultato di un’indigestione intellettuale umana. Mümtaz sapeva che lo sforzo secolare di questo patrimonio era impegnato in una trasformazione incessante.”
Il cugino İhsan si ammala gravemente. La vita di Mümtaz oltre la preoccupazione per il cugino diventa una continua riflessione sulla città che cambia, sul fatto che tutto cambia, che tutto alla fine diventa cianfrusaglie, roba dell’antiquariato. Ad un certo punto vede un negozio dell’usato:
“… si erano radunate lí, mescolandosi e intrecciandosi, le vite di tutti, le vite di sempre, le vite che stavano dietro gli episodi quotidiani e le esistenze individuali, come per dimostrare che sotto il sole nulla era permanente. Ogni giorno, ogni ora, ogni incidente che accadeva in città, ogni malattia, ogni crollo, ogni dispiacere aveva condotto qui tutti questi oggetti, cancellandone le individualità, rendendoli proprietà pubblica, facendone un amalgama creato dalla combinazione, mano nella mano, della miseria e del caso. – Che bella tradizione era quella di alcune antiche civiltà di bruciare o seppellire il defunto con i suoi oggetti. … No, uno non si separa, non si lascia indietro qualcosa solamente quando muore. Forse le cose lo abbandonano durante tutto il corso della vita, in ogni istante. Poi, all’improvviso, qualcosa di delicato e invisibile forma una crosta e lo allontana da tutto quello che gli sta intorno. Siamo noi ad andarcene o sono loro? La questione era tutta lí …”
Questi pensieri oscuri di Mümtaz sono aggravati anche dal fatto che la sua fidanzata Nuran lo aveva lasciato un anno prima.
“Magari avessi potuto conoscerla solo cosí da lontano, cosí in solitudine, distaccata da tutto, nella sua bellezza … “
Il racconto come l’amore tra Mümtaz e Nuran che nasce, si sviluppa e alla fine fallisce è uno degli argomenti centrali del romanzo. Una meravigliosa descrizione del corteggiamento, della “chimica del desiderio e della passione”. La divorziata Nuran ha due anni più di Mümtaz e per lui diventa “la fonte autentica della vita”; grazie a lei comincia a vivere. Lei gli fa pensare al mito di Platone dell’altra, persa metà dell’uomo. Il substrato su cui cresce questo amore è Istanbul, la sua vecchia cultura ottomana, un importante legame fra gli amanti.
Noi possiamo intuire subito anche le caratteristiche peculiari che mettono in pericolo quest’amore. Quando a Nuran manca la fiducia nella vita, Mümtaz sente un opprimente obbligo morale verso il passato. Secondo lui, uno che non ricorda cancella le vite dei morti in modo definitivo. “Noi siamo i loro unici protettori.” Ne consegue che la memoria, la morte e la caducità sono spesso l’argomento nel discorso dei due amanti.
I dubbi si annidano, avvelenano la felicità e insieme con la cattiveria inflitta da un terzo, portano la storia d’amore verso la sua fine fosca e triste.
È la innata tendenza di Mümtaz a ruminare, forse tendenza dannosa per le relazioni amorose, ma che gli permette di sopravvivere, di andare avanti.
Tanpınar fa riflettere il suo protagonista sulla natura del tempo, il tempo del freddo universo e il tempo del povero essere umano, costretto a dividere il suo assegnato tempo fra vita e morte, aiutato solo dalla mente umana che non può essere mai all’altezza del problema.
Si dovrebbe leggere questo libro insieme con il libro di Pamuk, con grande vantaggio per entrambi. È un approccio quello di Tanpınar che in un modo anticipa quello di Pamuk, ma circa un mezzo secolo prima. Si può solo sperare che tale sequenza di eredità letteraria si ripeta fra qualche decennio. Le probabilità sono buone in quanto si tratta di un processo letterario che esprime una condizione fondamentale e immutabile dell’uomo, e ogni tanto nasce un autore con la sensibilità necessaria.
Pamuk si avvicina al suo soggetto Istanbul non esclusivamente nel modo di uno storico della politica o della cultura, troviamo tanta vita personale e tante prospettive fondate sulla esperienza di uno che ha sempre vissuto qui, c’è tanta microstoria e storia orale. Soprattutto è un caveau delle ricchezze di relazioni culturali che nella consapevolezza di entrambi i lati del Bosforo, all’ovest come all’est, non sono più presenti, ma proprio per questo abbiamo la letteratura.
È uno dei misteri della letteratura, quando e dove ella nasce. Questo bambino, questo tappo di forse quattro anni un giorno darà una voce alla sua città di nascita, evocherà la storia in immagini suggestive. Fa questo non senza inserirsi in una tradizione di altri autori che sentivano lo stesso desiderio dentro di sé. Adesso si potrebbe obiettare che gli stessi pensieri potrebbero sorgere di fronte ad una foto di un giovane dittatore o criminale. Questa obiezione è debole. Benché il male sia semplice, triviale, una furia cieca, quanta formazione invece serve, quanta ricerca, quanto leggere, scrivere, quanto paziente ascoltare e osservare per dare voce a una cultura. Eppure succede, e questo tappo un giorno prenderà la penna, si siederà alla scrivania e comincerà a scrivere. Deve anche esistere un amore per la carta e per i segni che appaiono su di essa, segni che rappresentano il mondo. Solo grazie alla letteratura qualcosa rimane, solo nella letteratura emerge qualcosa come una storia personale che è in possesso di una realtà coinvolgente superiore alla Storia con maiuscola, quest’ultima una scienza, sebbene anche lei fondata principalmente sull’evidenza scritta, che rimane sempre un’attività alla ricerca di un “minimo denominatore comune”.

Il romanzo “Huzur” di Tanpınar è stato pubblicato dalla Einaudi con titolo “Serenità”.
È stata appena ripubblicata, anche dalla Einaudi, la traduzione del suo romanzo “Saatleri Ayarlama Enstitüsü”, “L’Istituto per la Regolazione degli Orologi”.
I romanzi e il libro di memorie “İstanbul” di Pamuk sono stati pubblicati dalla Einaudi.
Anche se non è il tema di questo scritto, vorrei richiamare l’attenzione su una pubblicazione che mette in comparazione i due autori Orhan Pamuk e W.G. Sebald e così scopre una sorprendente affinità fra il loro modo di pensare il tempo e la Storia, una forte somiglianza fra Melancholie dell’uno e “hüzün” dell’altro. È la monografia “Die Poetik des Marginalen – W.G. Sebalds und Orhan Pamuks Literatur” [La poesia del marginale], di Ersin Münüklü. (transcript Verlag, Bielefeld 2022). Questo libro confronta i più importanti aspetti psicologici e tecnici della prosa di Sebald e Pamuk, ecco perché è molto utile per la lettura di entrambi gli autori. In particolare il loro sguardo sui luoghi in cui la Storia si è materializzata, in cui essa si è depositata in strati densi come i fossili, è molto simile. Mentre nel caso di Sebald questi sentimenti/sedimenti nei confronti del tempo e la vita si manifestano in una prosa di un passato fittizio, Pamuk in “Istanbul” evoca momenti della sua vita e memoria che respirano proprio questa temporaneità.
