“Carrie” di Stephen King: recensione libro
“Ma il “mi dispiace” è il pronto soccorso delle emozioni umane. È quello che dici quando rovesci una tazza di caffè, o mandi fuori pista una boccia quando giochi a bowling. Il vero dolore è raro come il vero amore.”
Tutti abbiamo conosciuto una Carrie White nella nostra vita. Tutti, da bambini, abbiamo preso parte all’inesorabile danza di cattiveria sulla cui pista si trovano a ballare vittime involontarie. Inconsapevoli.
“Carrie” di Stephen King
Alcuni, forse i più fortunati di noi, qualche volta, si sono sentiti come Carrie White. Hanno subito la violenza di un ballo al quale non si vuole partecipare, la solitudine inflitta alla diversità quando si è troppo giovani, o troppo stupidì, per volerla comprendere. O per provare almeno a capirla. C’è molto del King che verrà, in Carrie. Ci sono indizi, situazioni, riflessi e riferimenti. C’è una struttura narrativa che precorre i tempi confezionando una sorta di mokumentary ante-litteram, mescolando realtà e teoria. Errori e possibilità.
“Fu una sensazione terrificante. La mente e il sistema nervoso di Sue erano diventati come una biblioteca: e qualcuno con urgenza disperata correva in mezzo a lei, con le dita che sfioravano di sfuggita gli scaffali dei libri, togliendone qualcuno, scorrendolo in fretta, rimettendolo via, lasciandone cadere altri, con le pagine che svolazzavano selvaggiamente”
C’è anche la volontà di mettere e mettersi a nudo. C’è la necessità della comprensione, il coraggio che questa comporta, l’orrore derivato dalla sua assenza. Un orrore figlio di sbagli che si sommano a sbagli. Errori che si elevano a potenza trasformando quelle che potrebbero essere tante casualità involontarie in un’unica, collettiva, imperdonabile colpa.
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