“Che fine ha fatto la Neve?” di Gianluca Morozzi: recensione libro
Mi capita spesso di leggere due libri per volta – e non più di due – perché quando ce n’è stato anche un terzo ha fatto sempre una brutta fine (che io non ho letto). Capita anche che il libro iniziato dopo, finisce per primo. È il caso di questo “Che fine ha fatto la Neve?” di Gianluca Morozzi, scrittore bolognese di instancabile talento e penna.
Smetto quando voglio
Come ogni tossico ci ricasco sempre. La colpa va imputata anche alle cattive compagnie sempre pronte a rifornirti di roba. Volevo ripulirmi un po’ e invece sono inciampato ancora una volta in una pubblicazioni di Morozzi: dovrebbe essere l’ultima, ma non ci scommetterei. Intanto Kudos a me per fornire ben due consigli in un solo articolo. Smetto quando voglio è una notevole trilogia comica italiana che dovreste recuperare.
Possiamo trovare anche un tratto di unione tra queste due produzioni, perché riescono entrambe a riproporre qualcosa che in modo sbrigativo definiremo all’americana restando perfettamente ancorati alla nostra cultura. Niente calchi, niente appropriazioni indebite, tutto molto italiano, come direbbe Stanis in Boris (il fantastico Pietro Sermonti che recita anche nella suddetta trilogia), ma stavolta nell’accezione positiva del termine.
Quando si cerca di importare qualcosa è un attimo scadere nel ridicolo, ma sia Sydney Sibilia con “Smetto quando voglio”, sia Gianluca Morozzi con “Che fine ha fatto la Neve?” hanno fatto un lavoro encomiabile, trasportando una narrazione che siamo abituati a vedere dalle parti di Hollywood nel nostro tessuto sociale.
«Vilo, tu hai una grande dote: sai ascoltare. Ed è raro, sappilo, per un uomo.»
«Ascolto il cliente. Fa parte del mio lavoro, ascoltare il cliente.»
Mi sembrava che «fa parte del mio lavoro» suonasse meglio di «per forza, parli sempre tu.»
Neve con la lettera maiuscola
Più di una volta, in “Che fine ha fatto la Neve?” vi ritroverete a fare un paragone con King, tra la sua Castle Rock e la Picco Scuro di Morozzi. Se non fosse per il nome così pittoresco verrebbe il dubbio che Picco Scuro, da qualche parte della Toscana (sette chilometri a sud di Marradi, dice l’autore) esista davvero. Chiamiamo in causa il maestro dell’horror non solo per le atmosfere, ma anche per i toni che assume il libro. Perché se è vero che il romanzo comincia leggero e frizzante, arriva il punto in cui le cose si fanno più serie. Ed è sempre un piacere avere la conferma di come Morozzi riesca a gestire tutti questi registi in modo impeccabile.
L’autore ci disgusta con le sevizie perpetrate dai suoi orchi con la stessa disinvoltura con cui ci strappa grasse risate. Ci fa provare in poche righe una profonda compassione per le vittime da un paio di pagine, con la stessa forza con cui parteggiamo per i suoi protagonisti di sempre. Un dono, il suo, che gli permette di volteggiare sopra qualsiasi genere: la commedia – probabilmente è il suo terreno ideale -, l’horror, il giallo, e il fantastico. D’altronde le ispirazioni da cui attinge sono chiare e spesso citate. C’è King, c’è Lansdale, c’è Lynch e il suo Twin Peaks, tutti ottimi presupposti che aiutano a stabilire una connessione immediata e un linguaggio comune. Basta citare un drappo rosso, una pavimento a zigzag, un nano che parla al contrario e ci siamo già capiti.
È anche questa l’arma di Gianluca Morozzi, lo è sempre stata, la popolarità. Morozzi è uno del popolo, col suo tifo per il Bologna, col suo amore per Bologna, con la musica, e tutte le sue passioni cineletterarie. Star Trek, Lynch, Palahniuk, i fumetti.
Narrazione con la lettera maiuscola
Siamo arrivati fin qua e del romanzo non abbiamo ancora detto nulla. Il fatto è che parlare di un singolo libro di Morozzi comincia a diventare difficile. Mano a mano tutto si intreccia e sebbene niente sia necessario – il libro funziona benissimo da solo-, tutto concorre al Morozziverso. La sua non è una vera serialità, ma un catalogo di personaggi da far uscire e rientrare in scena secondo convenienza. Qua ritroviamo (anche) i protagonisti dell’“Era del porco” con nuovi equilibri, con l’Orrido e la Betty assoluti mattatori del gruppo. Poi c’è Vilo Vulcano, il protagonista del libro, apparso nel romanzo “Prisma” (2021), che poi è diventato la prima parte di questo libro. C’è anche dell’altro che non metto per non svelare troppo.
Neve è una bambina scomparsa quando Vilo Vulcano era bambino, sotto i suoi occhi, anche se di quel giorno non ricorda nulla. L’unico segno concreto di quel maledetto evento è una ferita ai genitali che gli rende ogni rapporto doloroso, e, ovviamente, la scomparsa di Neve. Vilo è un librario squattrinato, che porta avanti con passione la libreria che gli ha lasciato il padre. Arrotonda, ma forse è meglio dire campa, più col secondo suo lavoro, quello clandestino, quello che inizia quando il cartello sulla porta della libreria si gira su “chiuso”: quello di detective. Un detective senza metodo ma che in qualche modo se la cava sempre.
Il libro ci presenta tre casi. Il primo è quello di un escapologo morto cercando di realizzare la sua migliore fuga. È Zelda Versalico, la sorella convinta che ci sia qualcosa che non quadra, a cercare aiuto.
Poi c’è il caso della scomparsa di Viviana Porpora, portato all’attenzione proprio dalla Betty, che ha conosciuto la ragazza in questione.
L’ultimo invece, ha a che fare con un suicidio. La moglie di Renato Grimaldi non se la beve, così assume il nostro per vederci chiaro. C’è qualcosa di spettrale nella vedova Metella Montesi, però.
E proprio quest’ultimo caso farà chiarezza sul passato di Vilo, sulla scomparsa di Neve e su tante altre storie sinistre che animano la Bologna di Morozzi.
Morozzi con la lettera maiuscola
Senza andare troppo in dettaglio, cerchiamo di capire cosa può aspettarsi il lettore. Morozzi ha mille facce, ma una sola irresistibile voce, quella con cui riesce a conquistarci coi i suoi personaggi improbabili e cretinamente divertenti, ma anche a inorridirci con dettagliate e macabre scene splatter.
Ecco che può creare uno sfigato tifoso del bologna intento a pubblicare il suo primo romanzo (Lajos, nell’“Era del porco”), come anche un serial killer di nome Aldo Ferro (“Blackout”).
Può dare vita un’amabile studentessa che diventa detective per amore (“Chi non muore”), e presentarci un supereroe stabilitosi a Bologna (“Colui che gli dei vogliono distruggere”). E in tutti questi casi è credibile.
Abbiamo a che fare con un autore poliedrico e stravagante, e questo si riflette sulle sue storie che talvolta sfuggono alle etichette. In “Che fine ha fatto la Neve?” abbiamo il giallo, dove l’autore sembra voglia risolvere la sua ossessione per il delitto della camera chiusa, c’è l’horror, c’è il sadico, c’è il fantastico. C’è una donna ninja che uccide su commissione, c’è l’Orrido che le sbava dietro (magari è la sua prossima storia?). C’è la Betty che non funziona più in quel senso lì, c’è una rom non troppo sveglia che ha delle visioni quando fa sesso (o quando fa i bambini, come dice lei), c’è Chiara, c’è il farfallino da libraio, c’è il metodo Star Trek, c’è un pittore che ricorda quello de “La casa dalle finestre che ridono”.
Infilandosi in via de’ Toschi, aveva detto: «Lo sai, vero, che io abito nello stesso palazzo dell’Orrido?»
«Sì. Credo che me lo abbia detto.»
«E sai cosa significa questo per noi due, caro Vilo?»
«Cosa significa questo per noi due?»
«Che tra la tua libreria e la mia casa ci sono, suppergiù, novanta metri. In linea d’aria ancora meno, credo. Ma non ti preoccupare: ci sono troppi palazzi di mezzo perché tu possa vedermi mentre ballo nuda alla finestra quando ascolto i Depeche Mode. Ho già verificato. Non si può.»
Superhero fatigue (con la lettera maiuscola)
Prendo in prestito l’espressione con cui i critici americani definiscono il momento di stanca dei film sui supereroi. Uscita dopo uscita il pubblico sta disertando gli appuntamenti con i film Marvel. Forse per un deterioramento della qualità, più probabilmente per la mole di uscite e il disinteresse verso un sistema che sì, lega e rilancia, ma impedisce anche l’esistenza di qualcosa di unico, qualcosa di epocale.
Con le dovute proporzioni, è una sensazione che si può sperimentare anche per i romanzi di Gianluca Morozzi. Ovviamente non è il primo caso letterario di serializzazione, laddove la serie stavolta nemmeno c’è, ma forse è proprio questo l’equivoco.
Il rischio, detto da chi Morozzi lo adora, è che la forza di questi personaggi si perda nel processo, diventando una sorta di protagonisti omeopatici. Sono convinto che la Betty e l’Orrido folgoreranno i lettori che li incontrano per la prima volta, come è successo a noi tanti anni fa, ma chi bazzica la bibliografia di Morozzi da tempi immemori, saprà collocare ogni cosa nella giusta posizione. Il dubbio è che i personaggi servano più all’autore di quanto la storia serva ai personaggi. È un concetto un po’ egoista, immagino, in fondo chi più dell’autore ha diritto sulle sue creazioni? Però qualcosa al lettore dobbiamo concederglielo.
L’impressione non è mai quella di un calo qualitativo, ma più quella di un’epica mancata. Non vorremmo mai che i romanzi di Morozzi diventassero episodi sacrificabili, come succede con le collane dedicate ai supereroi. Fortunatamente (in realtà non è affatto fortuna), non è questo il caso.
“Che fine ha fatto la Neve?” di Gianluca Morozzi, Tea, 2024. Malditesto.