Con “Frammenti di vetro” la poeta e romanziera Inga Gaile conduce in una Lettonia la cui storia, probabilmente, non è del tutto nota alla maggioranza. Risultano, a questo proposito, di grande aiuto le ultime pagine del romanzo, aggiunte dalla traduttrice Margherita Carbonaro ed intitolate con spontanea chiarezza “Breve note per orientarsi in questo libro”. Una sintesi godibile quanto illuminante, che guida il lettore nell’interpretazione dei personaggi, descrivendo il bagaglio storico e culturale ereditato dalla nazione all’epoca della dittatura di Ulmanis, il “Condottiero”, tra il 1937 ed il 1939.
Sullo sfondo di una storica contrapposizione tra potere del padrone teutonico ed impero zarista, si susseguiranno, infatti, fin dal primo ‘900, rivolte, battaglie, rivoluzioni, violenze, morti, impiego di armi chimiche, una sola breve indipendenza che costò la vita a metà del popolo lettone, seguita, poi, dalla dittatura e dal suo progetto di eugenetica positiva: un piano per annientare tutto ciò che era considerato malato, inclusa la giovane protagonista del libro, Magdalēna, rea di aspettare un figlio nonostante la diagnosi di psicosi maniaco depressiva. Una missione perversa, che vedrà la sua realizzazione quando oltre 350 pazienti rinchiusi nell’ospedale psichiatrico di Strenči troveranno la morte per mano dei nazisti, appena dopo la nuova scomparsa della nazione per annessione all’unione sovietica. Ci vorranno, da lì, ancora altri 40 anni perché la Lettonia raggiunga, finalmente, la tanto agognata libertà.
Dalla storia travagliata di una nazione a quella dei protagonisti del romanzo, il passo è breve e necessario. Ogni fase, ogni momento storico, trova la sua concretizzazione nello sguardo, nelle colpe, nei rimpianti, nei sogni, negli intenti e nei ricordi degli uomini e delle donne che popolano questo splendido libro. L’intera narrazione avviene attraverso la voce dei personaggi, della stessa autrice, della natura, talvolta. Punti di vista che si alternano, anime che si espongono, si mettono a nudo, raccontano, riflettono, soffrono e raggiungono consapevolezze, o, magari, le confondono con le più facili illusioni. I flussi dei pensieri risultano autentici, spesso piacevolmente disorientanti, soprattutto quelli di Magda, che ride “come una che non è normale”, mentre le sue parole investono, inondano la mente, graffiano la carne e scheggiano le ossa. Allo stesso modo anche i capitoli non rispettano gli schemi, perdono la numerazione, iniziano, ma non finiscono mai. Il lettore diventa necessariamente parte della storia con i suoi protagonisti, non c’è modo di restare impassibili, di non riflettere sulla condizione umana in un contesto storico e politico così poco distante dal nostro (e non solo per diacronia). “Il silenzio è assenso – su questo assunto si basa tutto il loro sistema statale. Il loro? O il nostro? Io non sento mio questo strano Stato…”
Con audace spontaneità l’autrice, nonché attivista del movimento femminista lettone, racconta la condizione dell’essere donna che, ancora una volta, non si discosta troppo dal presente. Magda, amata, desiderata e messa in salvo (o piuttosto abbandonata) con una gravidanza che sembra, di colpo, diventare solo un suo “problema”. Johanna, ricca e fiera, innamorata, ma costretta alla durezza per compensare l’immobilità di un compagno fantoccio. Sincera, mai veramente amata, diventerà presto comoda scusa per i sogni infranti di un marito abulico. Ilze, che scelse di combattere la Centuria Nera per il suo paese, e che per questo non sarà considerata mai abbastanza madre, neanche quando, senza dire una parola, capirà ciò che del figlio anni di cure non avevano chiarito. Lidija, che imparò ad urlare muta nella notte per evitarne i sogni e a spargere raffiche di parole al vento del giorno per coprirne i silenzi. “Ho detto non ce n’è bisogno, devo solo respirare e pensare all’isola. All’isola? Sì, all’isola, quel posto dove sono al sicuro e posso parlare tranquillamente della mia infelicità con qualcuno a cui voglio bene. Lidija si è fatta seria. Ha sospirato di nuovo. E all’improvviso si è messa a piangere.”
“Frammenti di vetro” prende forma tra queste donne indispensabili che sembrano non servire a nessuno, che hanno detto o fatto troppo, uscendo fuori dalle righe che la società ha imposto loro come dogma, che si sono mostrate peccaminose, bugiarde, o forse solo vive. Eppure, si sa, la troppa attrazione conduce alla follia, allontana l’uomo dai propri doveri, obbligandolo a dimostrare sentimenti che per tradizione andrebbero elusi, e allora brucino queste femmine tentatrici, soffrano, vivano l’abbandono per ciò che hanno scelto, per ciò che non hanno potuto decidere o per qualunque altra cosa non abbiano mai potuto controllare. “Se avesse ammesso che la moglie era una creatura umana e non una dragonessa avrebbe dovuto riconoscere anche di aver passato quasi dieci anni giocando a carte e spassandosela. E non a suonare il pianoforte e a comporre, come aveva sognato”.
D’altro canto l’autrice non trascura affatto l’osservazione maschile: è infatti con gli incubi di Mārtiņš che il lettore conosce l’orrore dell’essere sopravvissuti, come è attraverso i pensieri del giovane dottor Vilks che il confine si smargina (tema che riemerge prepotente in ogni pubblicazione di Mar dei Sargassi), in particolar modo quello tra “normalità” e follia. Le definizioni assumono, così, toni astratti, utili ad offrire false certezze agli animi indecisi, a chi, per paura di osare o incapacità d’agire, necessita di liste precise che indichino cosa sia giusto e cosa non lo sia, o meglio, un elenco di cattivi cui dare la colpa degli errori propri. I malati, gli eroi che rifiutano di considerarsi tali, chi va oltre le convenzioni, chi trascorre tutta la vita alla ricerca del cambiamento, chi riflette sulle infinite possibilità che il mondo sa offrire: tutti sembrano diventare causa del fallimento di un intero mondo, e ad uno Stato incapace resta null’altro che il facile compito di fornire un nuovo nemico da additare. “E cosa rende pietosa la sua esistenza? Il modo in cui si fa la barba al mattino e torna poi nella stanza da letto e bacia la sua legittima sposa, scivola accanto a lei sotto la coperta perché le mattine sono ancora fredde? O i suoi regolari colloqui con il Condottiero? O il boccale di birra che si concede il venerdì sera o il fatto di sedere su un vaso da notte smaltato di bianco? Lei certo non annusa le sue feci. O forse sì, chi può saperlo. Le persone che hanno uno spiccato desiderio di controllare chi sta loro attorno sono caratterizzate anche da un’estrema volontà di controllo delle proprie deiezioni.”
Mar dei Sargassi conferma una grande abilità nel pubblicare tematiche forti ed attuali, nel dar voce, come sempre, a chi è al margine del mondo: reietti, isolati, scarti di una società che ancora oggi (con modalità talvolta più occultate che in passato) rifiuta, abbandona, definisce, classifica e giudica “stranezza” tutto ciò che non rispetta i canoni (di chi?). Persone strane. Persone diverse. Solo persone, persone sole, destinate all’oblio. “Se si aprisse la cartelletta, sulla prima pagina si vedrebbe il ritratto di un uomo dallo sguardo assorto e con la maschera di un sorriso, ma se me lo chiedessero direi che nei suoi occhi appare lo stesso bisogno di nascondere i propri pensieri e autentici desideri che si riconosce negli occhi dei miei pazienti.”
Rovesciando ogni certezza, Inga Gaile, sembra chiedere chi siano, in fondo, i veri folli, se noi esseri “normali” siamo abituati a distruggere vite e a pretendere di rimetterne insieme i cocci. Come vasi di vetro, quando ci capita, li scagliamo contro un muro qualunque, poi ne incolliamo le parti, vogliamo che tengano, ci convinciamo che il risultato sia poco diverso dal suo originale. Tardi. È troppo tardi quando notiamo i frammenti avanzati, conficcati senza pietà nella carne delle nostre mani. Tardi. Basterebbe, talvolta, fermarsi giusto un istante prima e riflettere, ma il pensiero, forse, è meglio lasciarlo ai veri “pazzi”. La fortuna, troppo spesso dimenticata, è che proprio dai peggiori tagli nasca la vita nuova. “Cara, cara Magdalēna. Due volte cara. Tu sei una brava persona, conta fino a dieci e trova un’isola dove stare al sicuro. Ricordati che bisogna respirare. Anche se fa male, bisogna respirare.”
Respiri Magda o forse ci provi soltanto? Lo so, l’aria nei polmoni spesso fa male anche senza l’ausilio del gas. Finisca lì il tuo sangue, che non faccia altro danno, che salvi la genetica, l’umanità intera ripulendola da un DNA disordinato. Che grande responsabilità grava su di te, donna sbagliata, tu che sei solo un errore da cancellare al più presto. Tu che scappi, fuggi in una realtà che potrebbe essere, con un uomo che non c’è. Forse sei pazza davvero Magdalēna, forse, in un modo o nell’altro, per sopravvivere non c’è altra scelta. La follia è il non accontentarsi, condursi dove la felicità guida per sfuggire all’apatia. Immorale non è la donna che lentamente si spegne tra i propri silenzi, quello, è solo il frutto della paura. Ma resta zitta Magdalēna! La tua violenza merita il silenzio, sorridi, parla poco e nessun erotismo. A nessuno piacciono le donne frivole e tristi. Fallo per il mondo, fallo per te, diversamente saresti fuori dal confine. Saresti sbagliata, una pazza. Ripetilo mille e una volte e, alla fine, ci crederai anche tu. Promesso. “mentre ancora non senti il dolore non senti nemmeno il tuo corpo, quando senti il dolore allora senti il tuo corpo, finché non senti il dolore non senti nemmeno il tuo corpo, vieni e feriscimi, con forza, colpiscimi, afferrami, fammi male, chinati su di me, soffia su di me il tuo respiro, mi piace, non piango, sono semplicemente un meccanismo fatto così, e mia madre aveva ragione, sono immorale, e adesso lei può trovare la pace. Il fatto che non mi voglia bene dimostra chiaramente che così dev’essere, perché a una come me non si può voler bene, io sono ripugnante, perversa, odiosa, una puttana. E adesso ho pace perché mia madre finalmente è in pace, e tutti i venti del mondo non le rimproverano più di essere una cattiva madre.”
Ho chiuso la lettura che, ad oggi, è stata la più bella dell’ultimo anno. Ho trattenuto il respiro finché non si è trasformato in un sussurro: non è colpa tua. “Cerchi la felicita, cerchi la gioia che gli è necessaria. Anche se è artificiale e non di rado eccessiva, però la trovi, non puoi mollare, devi aggrapparti alla felicità, Magda, aggrappati alla gioia, stai imparando a farlo. Stai ostinatamente imparando a essere contenta.”
Voglio toccarlo, cercare l’isola in cui essere al sicuro, circondata da una parete di vetro che impedisce di vedere cosa facciamo all’interno, voglio toccarlo ma ho paura che stacchi la sua mano dalla mia. E questo non lo sopporterei. L’amore fa molto male. Il dolore mi porta al di là. Il dolore mi porta al sicuro.
“Frammenti di vetro” di Inga Gaile, edizione Mar dei Sargassi.
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