Waytansea. È il nome dell’isola in cui sono andati ad abitare Misty e Peter, i protagonisti di Diary di Chuck Palahniuk. Due giovani che, dopo essersi conosciuti frequentando una scuola d’arte, si sono sposati e si sono trasferiti in quest’isola apparentemente tranquilla.
Waytansea, nome che durante la lettura del romanzo ha risuonato nella mia testa come il rintocco di una campana. Wait and see, è il gioco di parole che risulta dalla sua pronuncia: aspetta e vedi. E io mi sono messo comodo.
Perché Diary è, appunto, un diario che si costruisce giorno dopo giorno con le annotazioni di Misty, moglie in attesa che Peter, il marito, esca dal coma dopo esserci finito per un tentativo di suicidio dai contorni oscuri. E in quelle pagine Misty riversa tutta la loro vita, fatta di crepe, incomprensioni, delusioni, dolori, fallimenti.
Per questo le sue parole si riversano sulla carta in modo violento, scavando nelle fibre di cellulosa, scaricando punta e inchiostro con forza per raccontare il disorientamento, la frustrazione, lo squilibrio di un’esistenza costellata da ferite che non smettono mai di sanguinare.
“Ha aperto la porta di metallo e si è fatta da parte, ed è a quel punto che Misty l’ha vista. Quello che all’accademia non ti insegnano. Ovvero che sei sempre e comunque in trappola. Che la tua testa è la caverna, e i tuoi occhi ne sono l’ingresso. Che vivi dentro la tua testa, e vedi soltanto ciò che vuoi vedere. Che non fai altro che guardare ombre, inventandoti un significato tutto tuo”.
Inizia così a prendere forma questo diario e qualcosa inizia a schiarirsi in questa storia fatta di sconfitte e prevaricazioni: wait and see, se vuoi capire la vita di Misty, che vive intrappolata in un matrimonio senza amore con Peter; wait and see, se vuoi capire il tentativo di suicidio non riuscito di Peter, ora in coma; wait and see, se vuoi capire i messaggi oscuri ed enigmatici che Peter ha lasciato dietro di sé all’interno delle case dell’isola; wait and see, se vuoi capire il legame che unisce la comunità di Waytansea Island con l’arte di Misty, con le sue sofferenze, i suoi istinti.
“Dimenticare il dolore è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancora di più. La felicità non ci lascia cicatrici da mostrare. Dalla quiete impariamo così poco”.
“È un libro per molti ma non per tutti”, recita la bandella del libro. E devo dire che è una definizione piuttosto giusta: perché Palahniuk utilizza uno stile frammentato per esplorare temi come il sacrificio, l’arte e la disperazione per costruire una sorta di incubo vissuto a occhi aperti, tra piccolo colpi di scena e atmosfere claustrofobiche. Una lettura che diventa un’esperienza narrativa destabilizzante, ricca di riflessioni senza troppi fronzoli sulla natura umana. Però no, Diary non è un libro per tutti, a mio avviso neanche per molti: è un libro per chi ha pazienza, tempo e voglia di oscillare tra le righe di un romanzo crudo e scorbutico, per chi ha pazienza, tempo e voglia di andare a mettere le mani lì dove la vita è ruvida ed aspra da non poter essere raccontata che in un unico modo: diretto e brutale.
«I grafologi dicono che nella caligrafia ai manifestano i tre aspetti della personalità. Qualsiasi cosa si collochi al di sotto della linea di una parola, per esempio l’occhiello di una “g” o di una “y” minuscola, va riferito al subconscio. Quello che Freud chiamerebbe l’Es. La parte più animale di ognuno. Se tende a destra, significa che sei rivolto al futuro e al mondo che ti circonda. Se invece l’occhiello punta a sinistra, vuol dire che sei bloccato nel passato e concentrato su te stesso. La tua scrittura, il modo in cui cammini per strada, in ogni azione fisica si manifesta tutta la tua vita. Il modo in cui tieni le spalle, dice Angel. È tutta arte. Anche nei gesti che si fanno con le mani, uno non fa che raccontare senza sosta la sua vita».
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“Diary” di Chuck Palahniuk, edizioni Mondadori. Libri in Pillole.