“La ragazza che amava Miyazaki”: il Giappone visto con gli occhi di una 18enna
“La ragazza che amava Miyazaki” di Silvia Casini, Raffaella Fenoglio, Francesco Pasqua è stato uno di quei libri che ho fissato desiderosa in svariate librerie, finché me lo sono regalata per il mio compleanno. L’ho divorato in pochi giorni, ma… ed è un “ma” bello grosso”… temo di essere una delle poche persone sulla faccia della Terra a cui non è piaciuto.
La prima cosa da dire è che sono abituata a leggere libri definiti “per ragazzi”, quindi il motivo di questo disinnamoramento non penso nasca da un fraintendimento rispetto al lettore cui è indirizzato. Piuttosto ho rilevato due aspetti che mi hanno da subito reso guardinga nei confronti della storia.
Ma andiamo con ordine.
Sofia, la protagonista, vive nella parte vecchia di un piccolo paesino dove, causa la sua passione per il Giappone, i manga e soprattutto Miyazaki, si ritrova a essere il classico pesce fuor d’acqua. Ha un’amica, decisamente più sgamata di lei, che prova in vari modi a connetterla con quella che dovrebbe essere la vita di una diciottenne occidentale, ma Sofia non molla la sua nippo-mania, che si alimenta ancora di più quando in paese cominciano ad apparire murales ispirati ai film di Miyazaki, firmati dal misterioso street artisti Pagot. Quindi, all’amore per il Giappone, se ne affianca ben presto un altro…
Trama perfetta sulla carta, una copertina che è un capolavoro e allora perché La ragazza che amava Miyazaki non mi è piaciuto? Da una parte, ho trovato il tono di voce della protagonista spesso respingente, non sono riuscita a empatizzare con Sofia, non è entrata in contatto con la diciottenne che sono stata e che vorrei tornare a essere quando prendo in mano un libro per ragazzi. Ha invece destato la signorina Rottenmeier che è in me, cosa che mi è capitata anche leggendo la bozza di un altro libro cui ho lavorato in passato, in cui l’errore, a mio parere, è dare al personaggio un tono forzatamente sarcastico rispetto a tutto ciò che ha intorno, senza contare cosa può provare il lettore che lo incontra per la prima volta. C’è il rischio che a chi quel personaggio non l’ha fatto nascere arrivi purtroppo un forte senso di antipatia. O almeno, così è stato per me, perché quando ho chiuso il libro e mi sono chiesta se fossi stata l’unica ad aver provato questo distacco, leggendo le varie recensioni online la risposta che mi sono data è stata: “Sì!”.
C’è poi un altro aspetto. Anche qui piccola premessa: amo i film di Miyazaki, mentre scrivo un nerino del buio che viene dal viaggio in Giappone di una cara amica mi fissa appeso alla lampada; quando mia figlia aveva due anni aveva già visto Il mio vicino Totoro e Ponyo sulla scogliera; ogni 25 aprile festeggio citando la famosa frase: “Meglio maiale che fascista” (cosa che penso anche gli altri 364 giorni dell’anno) e citazioni del modo di parlare dei personaggi di Miyazaki fanno parte del parlare quotidiano della mia famiglia. Solo che nel libro, questi riferimenti sembrano più un elenco come a dire: “Ehi, guarda le so tutte!”, piuttosto che evocare una passione sfrenata per il regista, di quelle travolgenti che hai solo a diciotto anni (tranne la storia di come questa passione è nata, che ho trovato molto bella).
Insomma, sono rimasta così male dopo aver finito il libro e così stranita rispetto all’entusiasmo galoppante che riscontro online che finisco per consigliarne la lettura, perché sono curiosa di confrontarmi con quante più persone possibile. In fondo, il bello dei libri non è proprio questo?
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“La ragazza che amava Miyazaki” di Silvia Casini, Raffaella Fenoglio, Francesco Pasqua, Einaudi ragazzi.