Immaginatevi mentre risalite una strada di Montmartre in compagnia di un americano nato a Parigi nel XVII arrondissement , in compagnia, quindi, di un talentoso funambolo alla ricerca del proprio equilibrio tra pragmatismo e poesia, sospeso tra due lingue e due culture. Immaginatevi a fissare mulini a vento che scompaiono o si apprestano a diventare mero richiamo turistico.
Immaginatevi a bighellonare in compagnia di un Julien ragazzo, nei primi anni del secolo, alla scoperta ben poco geometrica, come si addice a un futuro flâneur, degli angoli più suggestivi della sua città. Immaginatevi poi in compagnia di un Julien disincantato, una quarantina d’anni fa, mentre s’interroga sul futuro della Ville Lumière, una città che si è sempre ammantata del bianco e nero di Cartier-Bresson e di Doisneau, e cerca di capire quali colori vestirà la Parigi dopo di lui.
Immaginate che Julien vi conduca a Saint-Julien-Le-Pauvre a sbirciare un Alighieri sdraiato sulla paglia, ai piedi del suo maestro, Brunetto Latini, come da precise indicazioni sulla corretta postura del discepolo di papà Urbano V. Un giovane Dante, reduce dalla ricerca di una balla di paglia in rue du Fouarre, dai mercati di fuerre, da stendere sul pavimento della chiesa.
Immaginate poi di tornare con Julien in rue de Passy a fissare un Julien bambino riflesso dal vetro della cartoleria dove mosche si scaldano al sole sulle copertine dei libri di scuola, o a distogliere lo sguardo dal ripugnante spaccato di un cranio umano nella vetrina di un ottico. Un angolo nascosto di una delle tante Parigi, perché, c’insegna Julien, di Parigi si deve parlare al plurale: ci sono molte Parigi e molte Parigi destinate a restare segrete agli occhi del viaggiatore. Ecco perché a Parigi si deve tornare, e tornare spesso, preferendo l’indolenza del flâneur, il piacere di smarrirsi, piuttosto che l’omologata frenesia del turista.
Il Tempo è metronomo del tornare, e Parigi è il luogo dove si torna. A Parigi si torna, come è tornato Julien Green dopo la guerra, magari per constatare la crudele contabilità della guerra: “Molti mancano all’appello”. Si torna dopo aver respirato Parigi oltre la Manica: “talora, di notte, la tristezza della Francia ci arriva come una grande onda che irrompe e s’infrange su di noi”. Si torna per riscoprire la leggerezza di una città taciturna con l’anima di una chiacchierona, una città prepotente, per certi versi, che tende ad allargarsi, come dice Julien, fino a diventare una sorta di mondo interiore in cui errare e rifugiarsi al bisogno. Rifugio vasto e periglioso, perché, da sempre, Parigi seduce la collera, perché la grandezza, da sempre, attira le brame degli uomini.
Scopritevi, a distanza di mezzo secolo, a osservare con tristezza Le Tuileries disonorate dalle giostre, e constatate con Julien che alcune bruttezze, come il vecchio Palais du Trocadéro, passano e altre sembrano destinate a resistere al tempo, anche se questa apparente sopravvivenza è comunque destinata a arrendersi al Tempo… non al tempo di Julien, non a quello vostro, forse, ma al tempo di chi ha tempo di aspettare tempi nuovi di una città nuova.
E, alla fine di tutti questi passi sbarazzini, immaginatevi una meravigliosa traduzione che vi pizzichi per il tallone e vi immerga nelle atmosfere arcane di un tempo che non c’è più, ma che, da Lutezia in avanti, ci sarà sempre.
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“Parigi” di Julien Green, edizioni Adelphi. I libri di Riccardo