Sussurri tra le pagine

“Paradise Falls” di Don Robertson: recensione libro

“Paradise Falls” di Don Robertson (suddiviso nei due volumi “il paradiso” e “l’inferno”) catapulta immediatamente il lettore in un piccolo villaggio con meno di tremila abitanti nel cuore dell’Ohio: una “arcadia” come la definisce l’autore. Si ergono tra i paesaggi ameni, l’abbondanza dei campi coltivati, le colline ridenti e gli allevamenti di galline: un piccolo tribunale, la sede dell’unico quotidiano, una banca, una fabbrica, una ferrovia e qualche negozietto. Questa è Paradise Falls. Abitata da persone desiderose di condurre una vita semplice, tranquilla, che non corrompa l’idillio di una realtà in cui tutto è opera di Dio. Un luogo che per i suoi abitanti rappresenta il mondo intero. “Ah questo posto. È un santo. È una puttana. È tutto”.

Soldati unionisti (Library of congress USA) (1863, A. J. Russell, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Siamo nel 1865 al termine della guerra civile americana, proprio nel tanto atteso giorno del ritorno dei soldati dal fronte dopo oltre 4 anni. È in questo contesto che iniziano ad intrecciarsi le vite di una molteplicità di personaggi. Tutti protagonisti di una storia personale affascinante e allo stesso tempo segnate. Una fitta maglia di vicende che si accavallano, si abbandonano e si riprendono, catturano e solo dopo ritornano.

Un linguaggio crudo e diretto, necessario per descrivere un puzzle di vite reali che incastrandosi tra loro generano “l’unica Verità vera, completa e incrollabile”. La Verità collettiva. “Ascoltate la Verità. Abbonda. Ognuno ha una sua verità, e ogni verità è vera agli occhi di chi la guarda, ma tutte le verità individuali sono semplicemente frammenti, e quindi l’unica vera Verità è la somma e il totale di tutte le giuste, corrette e incomplete verità individuali”.

(2020, susnpics, Pixabay License)

Un’arcadia dunque, un idilliaco paradiso prosperato nella grazia di Dio, questo è ciò che apparirà agli occhi dei soldati di ritorno dalla guerra. Giovani uomini che marciando su quella terra benedetta, trascineranno con sé ricordi di morte, con le narici ancora permeate dalla puzza della decomposizione e le mani sporche di sangue. Inseguiti da immagini di giovani compagni morti ammazzati, di cadaveri ammassati lasciati a marcire nei territori paludosi del sud, tra radici, rami, fango e insetti. Un monito ai futuri avventori. Un monito indirizzato a loro, che quei corpi li calpesteranno per raggiungere la vittoria.

Due libri che rapiscono, in cui non manca assolutamente nulla. Si proverà la soddisfazione della vendetta, per un padre condotto al fallimento ed al suicidio, e per una madre rinchiusa in manicomio. Si realizzerà il desiderio di riscatto, di un uomo rozzo nato in povertà, che saprà crescere tanto da fondare una città. Si conoscerà l’Amore, quello con l’iniziale maiuscola. L’Amore che non teme ostacoli, ma anzi trae forza da essi e non sbiadisce nel tempo. “… sanno bene cosa sia l’Amore. È più grande delle guerre, della morte, della difterite, dell’obesità e del terrore. Non si esaurisce mai e non può essere distrutto”. Si sentiranno risuonare strazianti echi di cuori infranti, che ancora non sanno quanto poco conti l’amore quando un matrimonio si misura in denaro. “Ti amo! Cosa ti aspetti che faccia? Che mi sollevi il cappello e fischietti qualche melodia allegra mentre esco dalla porta? Mio Dio…, sono un ESSERE UMANO e TI AMO!”. Ci si graffierà con la ruvida corazza della realtà più disincantata “Di tanto in tanto mi ritrovo a letto con una giovane donna che è stata distrutta da ciò che per mancanza di una parola migliore chiamerò poesia”.

Don Robertson

Un libro pieno di eroi morti e di furbi vivi. Uomini che crescono, prosperano e si arricchiscono, lasciando i posti d’onore ai santi e agli eroi. Uomini che si ritirano nelle file di chi non è alla ricerca di gloria, ma di pura, semplice, maestosa grandezza. Uomini, che rifuggendo i concetti stessi di amore puro o di intrepido eroismo, si affidano, piuttosto, ai cosiddetti “principi del cazzo”, nell’attesa di quell’onda fortunata, che cavalcata abilmente, renda un uomo comune, un “grande uomo”, anche quando questo dovesse implicare il sacrificio della propria umanità. “Cristo, ragazzo mio, non capisci che anche gli ideali sono mortali? Come l’amore e un orgasmo e tutto il resto: si consumano. Sii un vero uomo. Comprendi il mondo così com’è. Chiudi quella bocca. Tieni d’occhio il possibile. Ci saranno sempre mulini a vento, ma perché non lasciarli ad altri pazzi?”.

Robertson sembra volerci ricordare quanto sia fuggevole la vita e quanto sia facile inciampare anche lungo un tragitto ben delineato, cambiando per sempre il corso di un’intera esistenza. Una scelta sbagliata, una tragedia, un amore inaspettato e la vita devia verso una strada a senso unico, al termine della quale, attende sempre un ineluttabile finale. Un ramo che si spezza, una pietra che si spacca al sole, un vita che che si spegne. Per quanto la morte possa essere inaspettata e violenta, è pur sempre parte dell’ordine naturale delle cose. Non le spettano posti d’onore, non costituisce evento speciale o degno di particolare nota, finisce piuttosto tra le fitte righe di un giornale, in mezzo ad un bambino che si taglia con la carta e ad un professore che quasi si strozza con un osso di pollo. La morte è semplicemente il finale più scontato di ogni storia di vita e a volte solo un grande amore può negarne l’esistenza. “Mi ricordo come era un tempo, Ida. Non pensare che non mi ricordi. Sai quanti anni ho adesso? Novantasei. Eppure, mi ricordo ancora…. Tesoro mio. Amore mio. Senti il profumo di questi fiori che abbiamo piantato assieme. Continuano a sbocciare, ogni anno. Sono ancora qui. E non esiste una cosa chiamata morte, amore mio. Non esiste affatto.”

In un trascinate mix di avvenimenti si ripercorrono ben 40 anni di storia, mossi dalla ricerca della vera “grandezza”.  I villaggi diverranno città, gli umiliati otterranno fama e potere, i reietti rifiuteranno un destino già scritto in cerca di un più glorioso indomani, i grandi uomini saranno schiacciati dal peso della modernità, i giovani destinati a ricoprire ruoli illustri non vedranno mai il proprio destino compiersi. Eppure anche quando si raggiunge la vetta, si è felici solo a metà: soddisfazione ed appagamento lasciano presto il posto alla consapevolezza che dalla cima si può solo discendere, a volte anche precipitando rovinosamente.

È così che l’arcadico villaggio diviene città corrotta, gli antichi valori vengono sacrificati in nome del Dio denaro e il desiderio di grandezza si trasforma nel piacere di spezzare le volontà altrui. È così che il paradiso diventa inferno, quel luogo in cui la vita umana si sciupa e perde ogni suo valore. “Pensava alle guerre, alle rivoluzioni, ai tradimenti, all’oratoria, al valore. Stringeva il manico del bastone, lo batteva per terra, alzava lo sguardo, contemplava Dio, gli diceva: “Sto aspettando. Quando vorrai sarò pronto…, non sprecare il tuo tempo. Raggiungimi. Spazzami via. Sono un granello di sabbia sul panciotto della razza umana. Soffiami via.””

L’inferno è oscurità e ogni uomo finito nei suoi abissi volgerà lo sguardo verso il cielo, in cerca di un faro che illumini il suo cammino. Disperato, scruterà anche i punti più bui, perfino le stelle da sempre meno abbaglianti, per rendersi conto che sono le uniche ancora a brillare. Nelle profondità di questo paradiso al contrario, si plasmeranno i nuovi ideali, nasceranno i nuovi eroi e con loro, dunque, i nuovi martiri. “Horance, amico mio, ho percorso in lungo e in largo questa terra, …, ho dormito in calanchi, grotte e su carri nei campi, e ho visto il modo in cui vivono i ricchi e il modo in cui vivono i poveri, l’illusione, il sogno, il vomito, il dolore, l’urlo di questo paese, e sai una cosa? Le cose che ho visto, le persone, il terrore, la gioia, il dolce amore di primo mattino, non sono che la punta di un’unghia rispetto alle cose, alle persone e a tutto quello che non ho ancora visto, quindi non venirmi a parlare di genio, amico mio. Non sono nessuno e non so niente. Sto solo cercando di cavarmela, di trovare la mia strada, di aiutare le persone quando e se posso. Questo non fa di me un genio. Mi fa stare bene. Sai, per quello che vale, amo quei poveri figli di puttana. La gente, intendo. Sarò anche pazzo, ma di sicuro non sono un genio. Faccio quello che faccio perché sento di farlo. Non ho nessun merito.”

Robertson abbaglia con immagini forti che restano incise nella mente. Se sembra quasi di sentire il fruscio dei verdi fili d’erba sulle ridenti colline, si vede chiaramente anche la fitta nube di polvere nera che aleggia sulla città. Se si riesce a percepire il profumo del pane appena sfornato, si sente inevitabilmente anche la puzza di alcol e miseria che trascinano con sé i minatori reietti e sottopagati. Se si è dapprima riusciti a costruire l’immagine di un ridente paradiso, questa dovrà presto  lasciar spazio ad un quadro ben più cupo e orrido. “Si può forse trovare l’immagine più rappresentativa di questo villaggio in una bambina di quattro mesi che alle sei del mattino sta seduta in un canale di scolo con la pancia che le ringhia, sta seduta lì a mangiare le erbacce e a fare tortine di merda di cane”.

(2020, Timothy Eberly, Unsplash License)

E se all’inferno risiedono solo i peccatori, ecco che anche Paradise Falls sembra liberarsi di svariate anime pie. Nutrendosi del dolore dei superstiti, alimenta le sue ardenti fiamme, e con esse, cinge coloro che trovano in un Dio vendicativo, la ragione dell’inspiegabile tragedia. Persone afflitte, sconvolte dalla perdita, sull’orlo della follia. Esseri agonizzanti che non possono far altro se non flagellarsi con i propri peccati, ritenendosi direttamente responsabili per l’atroce afflizione che provano e che altrimenti non avrebbe ragion d’essere. A loro sembra essere dedicato un girone apposito, fatto di apaticitá, amarezza, tristezza, dolore profondo e lacrime. Qui i rimorsi per i peccati commessi si trasformano in un cantuccio caldo e accogliente, pronto ad avvolgere il dannato nella falsa convinzione che esista una causa per quella sofferenza immane, che quel dolore lancinante che esplode dentro, lo si meriti appieno. Il lutto si trasforma, così, da insensata tribolazione, ad equa punizione, meritata per un torto mai ripagato. Un banale tentativo di trovare una ragione e tornare, quindi, a respirare. Segue, poi, la rabbia. La voglia di far a pezzi questo mondo malvagio attraverso la dissolutezza ed il peccato. Il desiderio assillante di strapparsi il cuore dolorante dal petto una volta per tutte. Si finisce così, inevitabilmente, per alimentare un vortice di insensata cattiveria, nella vana speranza, che esso riesca a spazzare via, finalmente, l’incessante sofferenza.

Morti, nascite, passato, presente, progetti, delusioni, disillusioni, dolori, ferite, pazzia. Vite intere che come fili di un tessuto pregiato, si intrecciano, si tendono, si incrociano e talvolta si spezzano, dando vita ad un unico ordito.Signori e signore, benvenuti a Paradise Falls.

“Chiamalo Destino, chiamalo Natura, chiamalo Dio, chiamalo come preferisci chiamarlo. Dobbiamo avere delle cause per le cose che accadono. Non possiamo permetterci di credere che non ci sia un disegno.”“Io ce l’ho un modo per chiamarlo.”“E quale sarebbe?”“Merda. Lo chiamo merda.”

“Paradise Falls” di Don Robertson, edizione Nutrimenti.

Sussurri tra le pagine per The BookAvisor.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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