La voce nordica di Tore Renberg si spande attraverso le pagine de “La mia Ingeborg”, un romanzo che trattiene il lettore tra parole d’amore, gesti furiosi e la promessa di svelare un segreto appena accennato. Un nodo che si scioglie con lentezza, un filo che si dipana dal principio di un sentimento genuino e che traccia la linea dolorosa e mai retta che attraversa la vita. Lui è Tollak, lei è Ingeborg, e presto, diventeranno una cosa sola, uniti in un abbraccio che odora di casa, cose e certezze.
“La mia Ingeborg”, non è un romanzo sull’amore ed è tutt’altro che una favola. Manca l’idillio, nessuna illusione. Tollak è un uomo infelice, vestito di un’oscurità alla quale non sa dar voce, incapace di riconoscerla o di combatterla permetterà che si trasformi in bruciante collera, con l’alcol ad alimentarne la fiamma. Un incendio che si propaga incontrollato verso persone e cose: i figli che non rispecchiano le aspettative, un sistema che non merita fiducia, Ingeborg che è amore, ma che non può sapere quanto si nasconda dietro l’ennesima porta chiusa. “Alla fine avevamo trovato il nostro modo quieto e silenzioso di vivere, il mio.”
Rabbia. Rabbia che sigilla, che toglie la voce, che distrugge futuro e aspettative lasciandole a galleggiare sul fondo di una bottiglia. Ira che non permette di spiegare, che fa sentire incompresi, al confine di un mondo che parla una lingua straniera, estraniati, distanti, soggetti da evitare come fossero mostri, e forse tanto basta a diventarlo sul serio. Al margine, come Oddo, che vede attraverso il buio, Oddo, i cui pensieri sono talmente puri da non poter essere tradotti. Oddo, che è un uomo “ma anche qualcosa di completamente diverso”.
“Quadri, ha detto. Dipingo quadri di quello che vedo.
Ok, ho commentato, forse sospirando un po’.
Si, ha insistito ed è rimasto seduto com’era, il collo proteso, le sopracciglia aggrottate, in attesa di qualcosa.
E cosa vedi, Oddo?
Non lo so, prima devo finire il quadro.”
Tollak e Ingeborg sono pezzi complementari di uno stesso puzzle, avviluppati in quell’intima unione che è solo loro, che li cinge rendendoli quasi unica sostanza. Tollak è un uomo rude con il sangue amaro, ereditato da generazioni di infelici. Ha conosciuto l’odio, il disprezzo, il dolore e ne ha elargito altrettanto,
eppure è certo di amare Ingeborg “in maniera totale”. Lei, che è l’altra metà della storia, quella saggia, riflessiva, il contrappeso che fornisce equilibrio in una dicotomia di umori altrimenti impossibili da conciliare, per cui, imparerà a leggere tutto il possibile tra le righe dei lunghi silenzi del marito, mentre in risposta ai sempre più rari sorrisi, saprà come ridere per entrambi. Nel frattempo, il rancore di un padre scaverà anche nel cuore di una figlia, lascerà solchi e lembi da ricucire, attecchirà e nidificherà, perché i fardelli di una generazione si riversino sull’altra come unica speranza di salvezza.
Andrà avanti così questo incredibile e doloroso amore, un disastro annunciato anzitempo, almeno fino a quando la vita non strapperà il foglio, gettandone via una gran parte. Allora il mondo diventerà triste, il futuro cupo, il paesaggio aspro e le montagne ombrose, perché le cose più belle non dovrebbero mai essere invisibili agli occhi, perché con i propri errori ci si può convivere solo se si accetta di non poterli cancellare, perché le persone dovrebbero essere scelte quotidiane mai trascurabili ovvietà. Alle incertezze verrà abbandonato il futuro, e la sofferenza incessante alimenterà una frustrazione crescente e già antica quando ormai sarà troppo buio per potersi orientare. Buio perché Ingeborg era luce. Solo buio ora che Ingeborg non c’è più, e ad un cuore incompleto mancherà per sempre un pezzo per poter battere ancora.
“Sono Tollak di Ingeborg.
Appartengo al passato.
Lungi da me l’idea di trovare il mio posto da qualsiasi altra parte.”
Tore Renberg regala un romanzo di capitoli brevi, prosa scarna, fotografica e priva di orpelli. Non si perde in retorica, eppure la scelta di ogni singola parola non è affatto affidata al caso. La scrittura è puntuale ed incisiva fino a risultare brutale, ma perfettamente congegnata. Un flusso ininterrotto e mai filtrato di pensieri più o meno lucidi, un accavallarsi di umori e mezze parole, una lettura interiore governata da
vecchia rabbia sedimentata. L’effetto finale è quello di una pugnalata: Ingeborg manca, manca come può mancare solo l’aria nei polmoni, “manca così tanto che mi sembra di sanguinare dietro gli occhi”. Lo chiamano amore, ma più spesso é negazione, c’è chi lo confonde con la dipendenza o l’insoddisfazione, eppure la storia è piena di cuori che battono da sempre all’unisono per poi finire ferocemente schiantati. Forse basterebbe sporgersi oltre il proprio spazio, guardare in occhi già noti e riconoscervi un essere umano più che una fragile estremità di sé stessi, o forse bisognerebbe semplicemente imparare ad avere cura di sé per averne dell’altro, difficile dirlo, e definire regole non è certamente il fine di Renberg. “La mia Ingeborg” apre a tante riflessioni, contraddizioni e dubbi, è un libro duro, violento, scomodo, complicato, sconvolgente, tutto ciò che non vorremmo fosse un grande amore, eppure, talvolta, sembra non poter essere null’altro.
“Prima di incontrarti, ho fatto un mucchio di stronzate, le avevo detto. Se ti capitasse di sentire qualche brutta storia su di me, potrebbe anche darsi che sia vera.
[…]
Ma adesso non sono più così, avevo comunicato. Non ho più motivo di esserlo.”
Non ferire.
Non distruggere.
Mostra ciò che porti dentro.
Di’ quelle semplici parole che, più di ogni altra, servono a salvare una vita.
Poche regole per esseri umani troppo fragili.
Quando due persone si incontrano e cadono uno nelle braccia dell’altra, allora la terra trema e succedono cose meravigliose.
“La mia Ingeborg” di Tore Renberg, edizione Fazi Editore.
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