Giornalista, scrittrice, combattente, attivista politica, eletta sei volte deputata per il partito dei lavoratori brasiliano, pioniera del movimento femminista in Brasile, forte, generosa, donna: Heloneida Studart, che, con “La libertà è un passero blu”, seppe raccontare l’amore, il dolore, la passione, la crudeltà, la lotta per la libertà e per i diritti civili in una società che, oggi come allora, combatte contro le evidenti disparità sociali. Lei stessa pagò con la persecuzione e il carcere il suo impegno contro ogni forma di discriminazione e di oppressione negli anni della dittatura, l’autoritario governo militare, che sulla sfondo della guerra fredda, soffocò ogni libertà di parola e di opposizione politica, vietò scioperi e soppresse sindacati, censurò media e torturò dissidenti. “La gente seduta sul tappeto impolverato fumava e l’uomo di Paraíba pensava, disperato, al suo Paese: fiumi, pantani, città torride, bambini dagli occhi neri che aspettavano la morte, le porte chiuse a doppia mandata per via della polizia. L’incubo collettivo.”
Una storia che inizia e finisce con nonna Menina, donna rigida e inflessibile, matriarca di una famiglia fatta di sole donne, che in buona parte disprezza, per le sue macchie, per i suoi peccati che non si lavano né con lo scudiscio e né con la clausura, per l’amore che non distingue ricchezza, per le streghe che inseguono i sogni dei folli, per la ricerca di uno scrigno pieno di monete d’oro solo per imparare a vivere, ed infine, per João, figlio della peccatrice di cui non conobbe mai il volto, uno dei tanti reclusi senza accusa o processo. Unica eccezione sarà sua nipote Marina, privata dell’amore materno, ma prediletta da quella austera e inavvicinabile nonna, per la quale semplicemente “le donne non contano. Così come i neri e i poveri” eppure capace di ammirare e riconoscere in quegli occhi giovani qualcosa di sé stessa.
In una città divisa, con il suo centro storico dai papaveri rossi come lingue di fuoco sui muri bianchi, il quartiere dei nuovi ricchi con gli uccelli rinchiusi in gabbie sulle immense tettoie, le rive del fiume dove i neri portano i barili pieni di detriti, i quartieri poveri con i bambini seduti nelle bettole tra zecche e mosche a mangiare fango, i bordelli per le donne ripudiate che vi cercano rifugio e per gli uomini benestanti che vi trovano il piacere. Ovunque l’indigenza, il razionamento dei viveri per i poveri meticci, facce diverse di una stessa miseria nascoste tra baracche di latta in riva al fiume e bambini con l’elmintiasi. “Non avevo sonno e mi sembrava di sentire tutti i rumori del villaggio: la tosse delle donne, il pianto dei bambini malati, il tonfo delle noci di cocco nel buio. Ascoltavo il mare: sembrava essere cresciuto nella sua ira e arrivato sulla soglia della veranda, pieno di sporcizia e di alghe.”
“La libertà è un passero blu” è un vortice di passioni che volteggiano tra superstizioni, credenze e vecchi racconti di cavalli che ridono della bestialità degli abbienti, storie che portano direttamente al vecchio carcere, perché al mondo in fondo “ci sono soltanto i poveri e i ricchi”. È un groviglio di emozioni che si dipana tra amori rifiutati, mai nati o mai corrisposti, che portano con sé l’odore dello zucchero. È un giro di giostra che dura una vita intera, su un cavallo bianco o uno nero. È una parola senza cuore che si attacca alla pelle fino a lacerarla dolorosamente. “Accusai il colpo fin sotto l’ombelico; fu come se mi avessero spaccato le viscere. La parola si appiccicò al tessuto sottile della mia camicia da notte come un insetto ripugnante: un pederasta. Senza dire nulla, tornai a letto. Mi spogliai e mi coricai. Nuda, sotto il lenzuolo, il vocabolo era ancora incollato alla mia pelle viscoso, nero. Supina, trattenendo il respiro, aspettai che l’amore morisse.”
Eppure, come si può spiegare l’emozione? la dolorosa tenerezza di un amore senza speranza, quando restano solo gli occhi asciutti a raccontare di sentimenti straziati se la bocca non trova più la voce. Sentimenti muti come il forestiero con l’amuleto appeso al collo, come la paura di finire vecchia e folle, incapace di dimenticare, come João che, chiuso nel suo silenzio, sopporta ogni tortura. “Non riuscivo a piangere perché era come se piangessi lacrime di acido. Le palpebre erano immediatamente ferite… Ah, pensavo: “Non c’è organismo che possa trattenere il suo veleno, finirò con l’espellerlo, dovrà uscire fuori in qualche modo…” Volevo buttare via questo amore come se fosse qualcosa di deteriorato. Ma non ce la facevo.”
Tra culto bantu, spiritualità indigena, mitologia tupi e credenze popolari, la Studart riuscì a dar voce ad una realtà di disuguaglianze. Attraverso una prosa appassionata, ruvida, delicata ed infuocata allo stesso tempo, raccontò un paese, ancora oggi, segnato da un confine largo poche decine di passi, mirato a separare favelas e baraccopoli ai limiti della povertà, da ville con piscina e grattacieli, simboli di una ricchezza accessibile solo a un numero ristretto di individui. Un libro che non si può non amare, che lascia un segno nell’anima e l’amaro in bocca, il cuore traboccante di rabbia e gli occhi pieni di lacrime, la voglia di urlare al cielo contro ogni ingiustizia e la consapevolezza che la libertà sia di una così rara e delicata bellezza, che solo per essa, valga la pena di vivere e morire. “Nella vita reale, nel mondo dei ragni, non riusciamo mai a spezzare quel frammento di notte oscura che esiste in ciascuno di noi. Ci sono ragni, madri che ripudiano le figlie, figlie che non perdonano le madri, un ragazzo testardo e sfinito che si ostina a dire: Il passero è un uccello blu e questa è la mia ultima parola, Calunguinha”.
“La fame non è una parola”, diceva tempo addietro. La porta della stanza da stiro sbatteva. I piedi dei suoi amici si trascinavano nell’ombra. Parlavano della fame, della lotta di classe, della miseria infinita dei poveri. Ma nemmeno la morte è una parola.
“La libertà è un passero blu” di Heloneida Studart, edizione Marcos y Marcos.
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