“Legare: avvolgere con un elemento, per lo più flessibile, atto a garantire l’unione, il collegamento, la chiusura, o a impedire la libertà o la possibilità di movimento.”
Unione e costrizione sotto la stessa voce. Una parola che diventa un’arte nelle mani di Paolo Milone, medico in un reparto, di cui non si parla e che funge da asilo per coloro che il mondo non regge più: la psichiatria d’urgenza.
“L’arte di legare le persone” graffia, ferisce, penetra, lascia dissanguare come le unghie di Lucrezia artigliate in una mano mentre la sua lametta affonda. Come i polsi di un gigante, tagliati coi cocci di un amore infranto. “Se non hai mai provato il dolore psichiatrico, non dire che non esiste. Ringrazia il Signore e taci.”
Da un lato, una pioggia di lamette occultate, di segreti celati, di fiducia mal riposta, di solitudine ingiusta, di costole rotte con affetto, di paura della morte, ma più spesso della vita. La chiamano follia, per alcuni non esiste, per altri non potrebbe essere altrimenti. “I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene…”
Dall’altro lato, la psichiatria, con i suoi dosaggi incerti, le linee guida inapplicabili, le improvvisazioni necessarie e i talismani da baciare prima di partire. Un lavoro che mette paura, una vocazione che non consente errori ma che a volte permette di essere vigliacchi e guardare “l’abisso con gli occhi degli altri”, mentre Dio tiene la mano degli euforici al volante, dal tetto di una Ferrari che sfreccia tagliando il vento. “Giulia, l’incontro con il paziente non è l’imposizione della ragione sulla follia: è l’incontro tra due follie. Spera che la tua sia più umana e saggia dell’altra.”
Milone ricorre ad uno stile profondo, ispirato, poetico, e come Virgilio, attraverso la sua scrittura quasi in versi, diviene guida, per i corridoi del reparto 77 “metri cubi di niente, gonfiati di follia, dove infiniti mondi coesistono”. Inizia, così, la discesa verso gli inferi, diretti nelle profondità di una realtà cupa, oscura, spaventosa e troppo spesso ignorata. Come Dante, bisognerà aggrapparsi alla ragione per non cedere il passo a quella pazzia tumultuosa, viscerale, che invade, attecchisce, conquista e insegna regole nuove per un gioco troppo complicato.
È difficile spiegare quanto questo libro colpisca. Prende al petto, penetra sotto pelle e poi si insinua in ferite vecchie, che si credevano ormai cicatrizzate. Si piange silenziosamente con i paziente del 77. Si sorride amaramente per nascondere un dolore. Si ride quando diventa chiaro che la vita è così che va presa: ridendo, mentre sarà il mare a raccogliere tutte le lacrime del mondo. Mi chiedo se esistano parole in grado di spiegare che il mondo è ancora bello, anche se la giustizia è così faticosa da rinunciarvi e la verità non si manifesta da sola.
Paolo Milone ha trascorso quarant’anni a ricercare il dolore altrui tra i vicoli di Genova, a combattere contro voci inudibili, nemici invisibili, vite accartocciate e stipate in un comò, paranoie, ossessioni, euforie, voglia di divenire vento, che poi, è solo voglia di smettere di resistere. Tolto il camice da guerriero è tornato, dunque, ogni sera, ad essere marito, padre, amico e uomo. Con la faccia stanca ed i sorrisi finiti, un pezzo di cuore lasciato in ospedale e un abbraccio custodito per la sua famiglia. Nella testa un unico comandamento: non abbandonare.
E adesso prova a dire “sto male”.
“L’arte di legare le persone” di Paolo Milone, edizione Einaudi.
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