Una solitudine corrosiva, disagio esistenziale, incapacità di costruire e gestire relazioni durature, incapacità mista a timore di dare forma agli affetti, finanche alle emozioni, la questione relativa alla paternità. Sono questi gli elementi ricorrenti di questo breve racconto di Cesare Pavese intitolato La Famiglia, il cui titolo è già di per sé una sorta di evocazione di quel muro che, per autore e protagonista, appare invalicabile.
“Io la gente, e specialmente le donne, li avevo sempre trattati allo stesso modo: conosciuti e piantati. Con nessuno ho mai fatto vita in comune né assunte le mie responsabilità. Non sono amico di nessuno”.
Ma cambiare è un’operazione dolorosa, poiché il cambiamento porta con sé disagio: significa attraversare momenti di transizione durante i quali si perdono punti di riferimenti fissi e conosciuti, dunque anche certezze, per navigare in quel mare di mezzo che separa ciò che si è da ciò che si potrebbe diventare. E, malgrado l’orrore per la solitudine, Corradino trova rifugio solo in riva al fiume Sangone, dove prova a ripristinare uno stato di calma e ad operare un cambiamento estetico abbronzando la pelle al sole nel tentativo di riuscire a compiere il primo passo di questo processo di trasformazione.
La famiglia è un racconto che si legge velocemente e in cui è concentrato tutto il mondo di Cesare Pavese: la stanchezza fisica e psicologica, il disorientamento, quel senso di profonda delusione che scaturisce dalla difficoltà di amare, di costruire intorno a sé quel rifugio sicuro chiamato famiglia che in Pavese, e in Corradino, invece, si traduce in tensione costante e desolazione, per l’irraggiungibilità di un obiettivo i cui contorni sembrano inesorabilmente sfumare sempre di più fino a scomparire definitivamente.
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“La famiglia” di Cesare Pavese, edizioni Divergenze. Libri in Pillole.