Claustrofobia, dal latino claustrum “chiusura” e dal gr. ϕόβος “paura”, è vocabolo che fa riferimento al panico indotto da uno spazio angusto.
Ora, il libro è il luogo dove è solita rifugiarsi la mente, anche se, di questi tempi, più che un luogo dove la mente si rifugia, è un luogo dove la mente impaurita s’infratta.
Fate però attenzione a cercare rifugio in questo romanzo perché è un romanzo claustrofobico. Rischiate di finire schiacciati tra la prepotenza del quoziente d’intelligenza di Alicia Western e la serafica tolleranza del dottor Cohen, chiusi in un bugigattolo, con matematica, fisica, filosofia e astronomia a contendersi il poco fiato che il panico sarà disposto gettarvi sotto il tavolo. Se siete dei geni in matematica, ovvio tutto cambia, se, invece, anche per voi, come per me, un’equazione di secondo grado assurge a quello che nell’alpinismo è il nono, non andiamo benissimo. Ma magari suonate il violino come Paganini e l’accordatura di un Amati, di uno Stradivari o di un Guarneri non hanno segreti per voi… nemmeno? …forse vi nutrite di pane e Wittgenstein, non molto dietetico ma interessante… no, eh. Allora dovete stare alla larga da questo capolavoro in grado di traumatizzare e di pietrificare nella lettura, come un basilisco, anche chi, come me, conosca ben poco o ben niente dei temi trattati, sperso in un dialogo scarno e nudo fino al parossismo, dove si promuove la musica:
“Schopenhauer dice che se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica”
e si boccia il linguaggio, fenomeno devastante il cui avvento ha distrutto talenti e abilità umane di ogni sorta… e che dolore, simili considerazioni, per noi lettori, per voi scrittori, traduttori, editori, critici, dotti medici e sapienti.
Se avete letto “Il Passeggero” rimarrete anche prigionieri di un gioco di specchi tra le due parti della dilogia, con ben poche speranze di mettere un po’ d’ordine nel susseguirsi cronologico degli eventi, persi nei riflessi di tempi e universi stratificati, a barcamenarvi tra un Oppenheimer e un ordigno atomico, in compagnia di quelli che giocano con l’uranio arricchito, arricchendosi a loro volta e dimenticando, o fingendo di dimenticare, che il mondo “non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere” e che qualcuno dovrà pur dargli una mano. Magari uomini geniali che ritengono la morte garanzia di grandezza, unica speranza di non svegliarsi una mattina e ritrovarsi a dire qualcosa di incredibilmente stupido. Uomini chiusi in istituti dove le donne sono quasi assenti, e se ce ne sono, tutti credono lavorino in cucina, uomini consci del fatto che la prossima grande guerra non arriverà finché quelli che ricordano la precedente non saranno morti tutti… ma amici guerrafondai, non disperate, ancora un attimo di pazienza, ci siamo quasi.
Pagina dopo pagina, ci perderemo e ci ritroveremo, rotolando passivi come cespugli del deserto sospinti da un suadente vento atomico verso uno dei finali più commoventi della letteratura. Un finale indimenticabile che ci riporterà all’incipit del libro da cui siamo partiti in compagnia di un Talidomide Bianconiglio, folle scarto di produzione, grottesca personificazione della cupidigia delle industrie farmaceutiche.
Consigliato? …troppo facile, ve lo sconsiglio dicendovi che è sublime.
Ve lo sconsiglio, ma vi prego di leggerlo, e nel farlo vi prego di chiedervi quanto tempo dovrà passare prima di potervi di nuovo imbattere in una scrittura di questa caratura, nella scrittura di qualcuno che, come Cormac, si ricordi che la materia prima dell’arte è il dolore.
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“Stella Maris” di Cormac McCarthy, edizioni Einaudi. I libri di Riccardo