Se Federica Manzon fosse citata in una poesia farebbe sicuramente e necessariamente rima con Trieste, la città dove vorrebbe vivere di più oltre a Milano, la città della quale scrive sempre e con sempre maggiore maestria, la città natale di Alma, la protagonista del suo ultimo libro omonimo, edito da Feltrinelli e finalista nella cinquina selezionata dalla Giuria dei Letterati del Premio Campiello di quest’anno.
La ricerca della propria identità: un viaggio tra Trieste, la memoria e la Storia
Per tre giorni, culminanti nella Pasqua ortodossa, Alma torna appunto a Trieste per ricevere l’eredità del padre, uomo senza radici, uno slavo che per tutta la sua vita non ha fatto altro che andare e venire al di là del confine vicino, sfuggendo al passato, pensando che la geografia ha sempre il predominio sulla Storia (e che, comunque, «il senso dei fatti va cercato nelle storie minori», quelle con la “s” per intenderci) e imprimendo nella figlia una perenne smania di essere sempre altrove, identica a lui, per cercare o, forse, proprio per evitare di cercare la sua identità e le sue radici. Per sfuggire alla memoria, sospesi tra realtà e illusione, farcita di ideali troppo alti per essere realizzabili, per il padre. Tra desiderio di appartenenza e senso di estraneità perpetua, per lei.
«A ovest pensano che sia strana… con il tempo ha capito che a renderla strana, o straniera, è una sua sensibilità che non si accorda con niente, perché viene da un luogo marginale. Alma pensa che tutte le teorie di suo padre sull’andare liberi nel mondo erano un imbroglio, o forse lui non si era mai sentito straniero nelle terre che attraversava, come invece capita a lei.»
L’eredità
È quindi del tutto inaspettato per Alma il lascito paterno che è custodito per lei dall’ultima persona che vorrebbe rivedere, Vili, «un fratello, un amico, un antagonista», figlio di due amici di suo padre, il cui arrivo da Belgrado ha segnato uno spartiacque.
Tra la vita di prima (l’Austriaungheria della casa d’infanzia e dei nonni materni, la madre distratta e confusionaria che lavora nella Città dei Matti di Basaglia, l’isola dove va con il padre che sembra lavorare per il maresciallo Tito, il mare e le clanfe e le terrazze chiamate Topolini, la bicicletta che è sinonimo di libertà) e un dopo, fatto di rincorse e di fraintendimenti continui proprio con Vili, che lei saprebbe riconoscere tra mille per la sua andatura, «il modo di chiudersi nelle spalle e ritirare la testa»; di guerre come quelle jugoslave narrate in questo libro, guerre che scoppiano vicine ai confini, perenni polveriere, impossibili da tracciare nettamente, ma che sanno comunque definire l’appartenenza basata sul diritto di sangue. Sempre che questo sia possibile.
«Scrolla le spalle, come per scrollarsi di dosso anche le decisioni postume di suo padre, questa eredità indesiderata. Ancora una volta è riuscito a darle scacco, a legarla a Vili: i due ragazzini oggetto dei suoi esperimenti più o meno riusciti di creare mondi senza confini, dove le origini non contano e vivere insieme è alla portata di tutti.»
Un racconto universale
Ho amato molto questo libro che è molto di più di un romanzo, per la scrittura cristallina e profonda e perché rende universale il racconto delle storie personali di Alma e della sua famiglia, stimolando riflessioni e domande per nulla marginali, oltre ai temi principali della memoria, delle radici, della Storia, del “Di là”, zattera onnipresente nella postura di chi vive sui confini.
Domandarsi
Quanto essere liberi e non dare conto delle proprie intenzioni andandosene quando si vuole dà serenità ed è vera libertà?
Quanto sappiamo distinguere le cose per come le crediamo vere da quelle che poi in realtà sono vere? E cosa è la verità?
Quanta influenza hanno sulle relazioni le incomprensioni, frutto soprattutto di incomunicabilità («più importante dell’amore era la comprensione, e i segreti anche»)?
Quanto pesano sui figli le assenze, le distrazioni, le esclusioni dei genitori? E quanto pesa il passato sul presente?
Quando potremo finalmente imparare che tutte le guerre si assomigliano e hanno un costo troppo alto per l’umanità tutta? Possiamo imparare a riconoscere i segnali dei conflitti in divenire, ricordando il monito del padre di Alma «“Nella vita puoi avere tutte le libertà che vuoi, ma se non hai la libertà di dire e di scrivere quello che pensi, significa che qualcosa di molto brutto si sta preparando.”»?
E la “troppa” cultura, qualunque essa sia, quella dei nonni, quella del padre di Vili, è un bene o un male? Può salvare (Vili «vorrebbe raccontarle che da solo, in quell’appartamento di Belgrado senza elettricità, in quelle stanze dove era stato bambino, da solo e morto di paura nell’attesa che venissero a prenderlo, in quegli infiniti giorni di zinco aveva letto i libri di suo padre. Si era aggrappato ai libri, alla letteratura, come all’ultimo argine davanti alla violenza che stava facendo di loro qualcosa di mostruoso. Aveva letto e letto, e tutte le sciocchezze che gli scriveva suo padre – la libertà e la fratellanza, l’ideale – gli erano parse l’unica cosa capace di salvarli. Magari non avrebbero salvato lui, ma qualcuno, quelli che sarebbero venuti dopo, i nuovi bambini del suo popolo maledetto.»), ma può anche creare barriere quando sfocia nella stigmatizzazione.
Il tempo giusto
Alma, anima, non è naufraga alla fine del suo viaggio. Capisce che la mancanza è appartenenza, e che c’è un tempo giusto per ogni cosa, anche per comprendere questo.
Vieni a parlare di libri con tutti noi, nel gruppo Facebook The BookAdvisor
“Alma” di Federica Manzon, Feltrinelli Editore. A Garamond Type.