Ho conosciuto l’incantevole sensibile coraggiosa “signorina inglese” Pia Pera grazie al racconto che ne ha fatto il suo amico Emanuele Trevi nel libro “Due vite”, vincitore del Premio Strega 2021. E me ne sono innamorata in modo folle e definitivo dopo la lettura del suo ultimo lavoro, “Al giardino ancora non l’ho detto”, che “più che un libro è un journal d’appunti”.
Pia Pera è stata scrittrice di saggistica e di narrativa, nonché traduttrice dal russo. Giardiniera entusiasta, con i suoi libri e articoli e il sito Ortidipace ha trasmesso la sua idea di giardino, “un luogo dove passeggiare … in una transizione graduale, il più possibile impercettibile e discreta, tra l’apparentemente spontaneo e il campestre, tra il casuale e il deliberato. Il mio intento era stato cancellare, o quanto meno smorzare, le mie stesse tracce, gli indizi che avrebbero potuto sottolineare un progetto, un’intenzione.” E per rendere meno difficile quest’impresa un’unico ingrediente deve essere stato necessario: l’amore, non solo verso questo giardino, ma anche verso la natura in genere, facendo del giardinaggio una forma di letteratura.
Nel 2012 scopre di essere ammalata di sclerosi laterale amiotrofica. “Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me n’ero accorta.” Diceva di amarla. Già, come no? In questo suo dire con tono di rimprovero non c’era di certo amore e ora io vorrei chiedergli come aveva osato non amarla.
I haven’t told my garden yet
“Al giardino ancora non l’ho detto” è il racconto dell’attesa della sua morte, avvenuta nel luglio 2016, e prende il via e il titolo da una poesia di Emily Dickinson “I haven’t told my garden yet” che la folgorò, suggerendole un’idea rivoluzionaria della morte.
Pia si era illusa che il suo giardino, impostato proprio sull’assenza di un giardiniere, si sarebbe trovato meno impreparato al fatto che nessuno se ne sarebbe più preso cura da un certo punto in poi, la natura avrebbe preso di nuovo il sopravvento, invaso tutto lo spazio a caso e senza criterio alcuno. “Un pittore, uno scultore, un architetto, per non dire un poeta, sono meno sleali verso la loro opera. Creano qualcosa che, almeno in potenza, può continuare a vivere anche dopo di loro. In giardino è diverso. … C’era un disegno, in men che non si dica sarà cancellato.”
Questo ha creduto Pia prima della malattia, ma la poesia della Dickinson ha creato in lei un ribaltamento della prospettiva sulla morte, dato che l’ha esortata a smussare il proprio egoismo, a preoccuparsi non per la propria sorte, bensì per gli altri che avrebbe poi lasciato:
“Al giardino ancora non l’ho detto – / non ce la farei. / Nemmeno ho la forza adesso / di confessarlo all’ape.”
Nel corso della scrittura del libro, questa tesi fulminante ha però via via perso vigore, per lasciare spazio ad un unico tema, quello del giardiniere e della morte, narrati con grazia e delicatezza. Ma anche con sofferenza.
Un memoir struggente e abbagliante
Con questo memoir struggente e abbagliante Pia mi ha presa per mano e mi ha accompagnata nel suo giardino nella Lucchesia, mi ha fatta diventare come lei, via via sempre più incapace di muovermi, di respirare, sempre meno giardiniere e sempre più bisognosa di un aiuto anche per battere sui tasti, prigioniera di un corpo che non risponde più, nello stupore e nel rimpianto di essersi lasciata scappare tante cose che non aveva voluto quando avrebbe potuto averle, vittima forse di un’educazione un filo snob e austera che non le ha fatto apprezzare neanche un certo tipo di musica, quella degli Abba ad esempio (e la canzone del e nel mio cuore Dancing Queen che ora e per sempre vorrei cantare e ballare proprio con Pia).
Come lei, mi sono sentita trasformata in una pianta, immobile ma bellissima come la sua mente, lucida e ironica fino alla fine. Come lei ho cercato di capire come fare a congedarsi da tutto e da tutti, in primis dal cane Macchia, come accettare di andare a letto di giorno, come imparare a essere paziente e comprensiva con le persone malate e lente, a non essere giudicante, a meravigliarmi del glicine che si regge da solo per farsi ammirare e per insegnarci la bellezza. Ho visto annusato sentito le piante i fiori l’erba. E la sua luce.
L’eutanasia
La riflessione sulla vita e sulla morte che prende corpo riga dopo riga parla di libertà, anche quella della scelta di porre fine alla propria vita con l’eutanasia, in un momento in cui in Italia si raccolgono le firme per un referendum che sancisca finalmente il diritto a ottenerla legalmente (questo non significa incentivare a farne uso, ma implica evitare di diventare un target a cui potrebbe interesse acquistarla. Ma questo è un mio parere ed è un’altra storia).
Il viaggio dell’anima
Pia si è imbattuta in ciarlatani, spacciatori di false speranze che le hanno detto che le delusioni non fanno guarire, che le hanno fatto anche credere che è stata colpa sua se si è ammalata. Ma ha imparato a discernere e a farsi poi coltivare solo da chi e da cosa le è risuonato. E lo ha riportato a noi senza fingere e senza trovare consolazione neanche nei tulipani in fiore perché la malattia è stata davvero una voragine che ha risucchiato il suo corpo fisico. Troppa la paura che l’ha minata senza però eliminare la certezza che ciò che conta è proprio l’attimo presente. E che quando la luce si spegnerà, resterà l’essersi voluti bene. E che bisogna imparare a lasciare e a lasciarsi andare, nel nome dell’impermanenza, nel viaggio dell’anima che tutti noi facciamo.
“La cura di un giardino segue le stesse regole della cura del nostro giardino interiore, del nostro corpo, o meglio dei nostri corpi, fisico, emotivo, mentale. Guardando il tuo giardino si comprende chiaramente come sei riuscita a metterti in contatto con la sua anima, con il genius loci, che sei riuscita a creare in esso l’armonia, seguendo la sua energia, le sue necessità, le sue aspirazioni più elevate. Curare e coltivare se stessi è la medesima cosa, e osservando il modo con cui hai agito nel giardino puoi anche comprendere come dovresti agire quando il giardino da curare si chiama Pia.”
Essere visti
Allora, alla domanda che si è posta Pia di fronte alla poesia della Dickinson, cioè se davvero essa suggerisca una perdita dell’egoismo o se invece non sia che un modo per darci più importanza sentendoci indispensabili per quelli che lasceremo, in fondo la risposta è che tutti noi cerchiamo sempre lo sguardo degli altri, anche di una pianta, anche di chi diceva di amarci e invece no. E attraverso questo sguardo noi siamo visti ed esistiamo. Vogliamo restare per noi, perché “non c’è vita / che almeno per un attimo / non sia stata immortale. / La morte / è sempre in ritardo di quell’attimo.” come scriveva Wisława Szymborska nella sua poesia “Sulla morte senza esagerare”.
“Forse, quando si tratta di morire, il giardiniere non è più giardiniere. Lo scrittore non è più scrittore. Forse, quando si tratta di morire, arriva la consapevolezza del proprio essere indefiniti. Quell’essere indefiniti che, meditando, si impara ad accettare. Indefinito, immerso nell’infinito, parte dell’infinito.”
“Al giardino ancora non l’ho detto” di Pia Pera, Ponte alle Grazie. A Garamond Type.