Sussurri tra le pagine

“Un’isola” di Karen Jennings: recensione libro

Un corpo, forse due, o anche 30, anzi, 32, esattamente quanti ne troverà Samuel sull’isola nell’arco 23 anni. Cadaveri, che se in principio segnano l’esordio della nuova nazione post dittatura, presto diventeranno un fastidio: l’oggetto di un lugubre smaltimento. Inizia così, “Un’isola” di Karen Jennings, con queste presenze ingombranti, infestanti, disumanizzate, da arginare oltre un muro improvvisato, soprattutto se vestono il colore sbagliato. 

“«Di che colore sono?». 

«Cosa?». 

«Di che colore sono? I corpi. Di che colore?». 

Lui era rimasto in silenzio. 

[…] 

«Non so. Sono bambini. Sono come tutti i bambini».” 

(2017, Everaldo Coelho, Unsplash License)

Già iniziata anni addietro prosegue, dunque, la discesa negli inferi per il guardiano del faro, giunto sull’isola proprio per tenersi lontano dal mondo, dalla terraferma, da quella vita sofferta, dalle grida di un passato cui sperava di potersi sottrarre. Ma provateci a cancellare i ricordi, quelli più meschini soprattutto. Quelli che si aggrappano e scavano solchi impossibili da colmare in una vita sola. In fondo, noi stessi, non siamo altro che il risultato di ciò che ha distrutto le nostre vite, di ciò che il destino ha scritto: una somma, il cui esito ci rende unici ed incredibilmente fragili. “C’erano anche i ricordi, che quella mattina arrivavano a frotte – cose che sarebbe stato meglio dimenticare e che si avvicendavano con la regolarità delle onde sulla riva.” 

La penna dell’autrice rende le immagini vivide, le parole feroci prendono rapidamente forma: l’odore del mare, il sale sulla pelle, la sabbia che inghiotte, l’odore pungente della decomposizione, un faro in rovina, la decadenza di un mondo che si libera dal colonialismo e abbraccia la propria irrimediabile caducità. La narrazione è limpida, profonda ed asciutta, senza ricorso ad eccessiva retorica o a superflui pietismi, ma anzi, traccia la cronaca di un luogo immaginario, che è al contempo perfettamente reale. Il racconto impietoso di un qualunque paese, di un popolo qualsiasi, che ha attraversato il fuoco per incollare il titolo di “nazione” sui resti di una terra stuprata. 

(2018, Nate, Unsplash License)

Lentamente, tra le pagine, si delinea anche il passato del protagonista, un tassello dopo l’altro come un puzzle triste, che lo porterà a diventare un vecchio schivo, diffidente e dipendente dalla propria solitudine. Samuel proverà a rigettare quelle memorie caustiche che nessuna lontananza sarà mai in grado di obnubilare, eppure tutte lentamente torneranno sempre a galla: gli odori acri, il fumo negli occhi, la rigidità imposta dalla religione altrui, una promessa di salvezza mai trovata, le esalazioni nauseabonde di una putrefazione imminente, gli occhi al cielo, gli ultimi scatti di una mascella, l’infanzia, la mano di un padre che a sguardo basso chiede solo una moneta, voci appena sussurrate che parlano di indipendenza, la pretesa di un adeguamento occidentale, una mappa che cancella tribù e tradizioni senza pietà, il carcere, il Dittatore, gli abiti sporchi e lacerati non più dell’anima affranta e poi tanta, irriducibile paura. “«Dicono che… l’odore di pane bruciato… dicono che è quello che senti un attimo prima di morire. Pensa, di tutti gli odori al mondo è questo quello che ti avverte che è arrivata la tua ora! Per questo so che a questa riunione siamo al sicuro. Non sento niente del genere. Non ci sarà nessuna irruzione».” 

Karen Jennings

Ed è proprio la paura a rendere il protagonista imperfettamente umano. Samuel, che è tutto fuorché un eroe. Il terrore che segna il confine tra vita e sopravvivenza, è il motore di un romanzo che si ripete all’infinito, mentre un uomo muore, un continente soffre e l’ennesimo barcone si posa sul fondo del mare, insieme ai sogni e ai desideri delle centinaia di vite che portava con sé. 

Karen Jennings racconta una storia già sentita, nessun muto grido che le nostre orecchie non abbiamo già udito, eppure, in questa società assuefatta al dolore, riesce a graffiare i cuori, a comunicare un messaggio che va ben oltre l’abitudine, al di là delle immagini proposte da un video oltreoceano. Sovrapponendo istantanee di nascite e di morti, odori di putrefazione e latte materno, sorrisi fraterni e asce insanguinate, felicità stentata e rabbia ostinata, emergono ricordi che hanno più il tono degli incubi. Con la lingua universale del dolore, la stessa che unisce ogni sopravvissuto, dà voce agli uomini già morti prima ancora di poter dire addio alla vita, senza alcuna misericordia, senza più speranza, mentre l’umanità intera lentamente avvizzisce. “«Uto», disse. «Uto, uto, uto», finché Samuel non poté più ignorare che l’uomo aveva detto “aiuto”. Aveva sentito quella parola da qualche parte, l’aveva imparata da qualche parte, e adesso la usava disperato. Nella supplica di quell’uomo, nel suo uso implorante della parola, Samuel riconobbe la propria paura, la paura che si era portato dietro per tanti anni. […] La paura di morire.” 

Quei ricordi, quei ricordi che lo perseguitavano, che si impossessavano di lui. Quei ricordi, e una parola adesso, una parola che esisteva nella sua memoria, che si mosse dentro di lui, si fermò sulla lingua, in attesa di essere pronunciata ad alta voce. Si girò verso la donna, si chinò su di lei. «Violenza», disse.

“Un’isola” di Karen Jennings, edizione Fazi Editore.

Sussurri tra le pagine per The BookAvisor.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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