Moving Books – Le relazioni pericolose e Valmont
Leggendolo oggi, è incredibile pensare che la data di pubblicazione di Le relazioni pericolose di Pierre-Ambrois-François Choderlos de Laclos sia 1782. Ed è impossibile non restare avvinti dagli intrighi messi in atto dal Visconte di Valmont e dalla Marchesa de Merteuil. Anzi, si finisce per chiedersi cos’altro avrebbero potuto fare due menti tanto sopraffine (soprattutto quella di lei) se avessero voluto esercitare altrimenti il proprio talento.
La storia cinematografica di questo straordinario romanzo epistolare è molto particolare. Nell’arco di pochi mesi, fra 1988 e 1989 ne uscirono ben due trasposizioni su grande schermo, caratterizzate ciascuna da uno spirito unico. La prima è quella diretta dall’inglese Stephen Frears, che conta nella sua filmografia diverse pellicole in costume. L’approccio di Frears è profondamente teatrale, come dimostrano casting e recitazione: John Malkovich, un Valmont luciferino, e Glenn Close, la spietata marchesa de Merteuil, furono entrambi scelti proprio per l’esperienza in teatro, poiché le dinamiche del palcoscenico rispecchiano quelle dell’aristocrazia francese del Settecento.
Questi due attori si contrappongono alla pia Madame de Tourvel di Michelle Pfeiffer, la cui genuina devozione finisce sì per esserle fatale, ma anche per destabilizzare gli altri due protagonisti e i loro diabolici giochi. Guardando questo film, ci si chiede come sia possibile per Madame de Tourvel e per tutti gli altri non rendersi conto dei fini di Valmont e della Merteuil: la recitazione di Malkovich e della Close è l’espressione pura del godimento nella crudeltà. Questo ci provoca un distacco razionale, che raffredda ulteriormente il ghiaccio bollente della materia d’origine. Diversi passaggi particolarmente feroci del romanzo (come la confessione-capolavoro della marchesa) sono citati quasi testualmente, ma la sceneggiatura sceglie infine di sposare un finale che Choderlos de Laclos non era nemmeno sicuro di inserire, ovvero il pentimento di Valmont e il suo involontario affetto per la morente Madame de Tourvel.
Tutt’altro discorso è il Valmont di Miloš Forman, che nel 1984 aveva già frequentato il XVIII secolo con Amadeus. La sua versione della storia nacque sotto una cattiva stella: uscito poco dopo il film di Frears, Valmont fu snobbato o non apprezzato da pubblico e critica, che lo confrontarono con l’eccellente precedente. A torto. Il cast è meno appariscente, più giovane e decisamente più “sfumato”. La triade Merteuil-Valmont-Tourvel fu impersonata da una sfacciata ma vulnerabile Annette Bening, da un Colin Firth sprovveduto e spavaldo e da una complessa Meg Tilly. Le azioni di questi personaggi, così come di quelli che interagiscono con loro, sembrano più inconsapevoli senza essere superficiali, quasi come se fossero gli invisibili fili della società a portarli all’azione. È proprio questo giocare sotto le righe, per sottrazione, a rendere questa trasposizione più radicata nel reale. E del resto, anche la storia si prende diverse libertà in più rispetto al romanzo, soprattutto in un finale che offre vie d’uscita insperate (ma non prive di rimpianto) ai personaggi più innocenti.
Dal Settecento perverso e violento, anche cromaticamente, di Frears, si passa nel giro di pochi mesi a quello di Forman, setoso, pastello e, se possibile, ancora più amaro. Entrambe sono trasposizioni bellissime per diversi motivi, che ci portano in un momento storico in cui emergevano le prime riflessioni fondate sulla femminilità e sul ruolo delle donne nella società, e le classi sociali più alte si davano a immorali passatempi per non vedere l’abisso che stava per inghiottirle.