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“Elias Portolu” di Grazia Deledda: un dramma passionale nella Sardegna del primo Novecento

“Elias Portolu”, romanzo pubblicato nel 1900 su “la Nuova Antologia” di Firenze e poi in volume nel 1903 (Roux e Viarengo, Torino), è uno dei libri di maggior successo di Grazia Deledda.

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, nata a Nuoro il 27 settembre del 1871, quinta di sette figli di una famiglia benestante, frequenta solo le elementari e poi continua a studiare privatamente perché in quell’epoca alle donne non era permessa l’istruzione oltre le scuole primarie. La sua grande passione è la scrittura e all’età di 17 anni ottiene che alcuni suoi racconti siano pubblicati dalla rivista “L’ultima moda”. Qualche anno dopo sulla stessa rivista sarà pubblicato il romanzo “Memorie di Fernanda”. Nel 1903, l’uscita di “Elias Portolu” le dà ufficialmente la fama di scrittrice.

Grazia Deledda

“Elias Portolu” di Grazia Deledda

Come molti dei suoi romanzi – tra i quali ricordiamo L’edera, Canne al vento, Marianna Sirca, La madre, Annalena Bilsini – anche “Elias Portolu” è ambientato nella Sardegna del primo Novecento, isola di pastori, di natura selvaggia, di spazi grandi e silenziosi. Ricco di suspense e dal finale drammatico e non consolatorio, il libro si apre con il ritorno nella casa di famiglia del protagonista, Elias, dopo aver scontato una condanna in un carcere del continente. La sua famiglia è composta dal padre, il patriarca zio Berte (in Sardegna il titolo di “zio” si dà a tutte le persone di una certa età), pastore di pecore, dalla madre zia Annedda “una donnina placida, bianca, un po’ sorda che amava Elias sopra tutti i suoi figlioli” e dagli altri due fratelli, Mattia e Pietro. La famiglia in quegli ultimi giorni di aprile è lieta, la casache si riempirà di amici, parenti e vicini – “era intonacata a fresco, il vino e il pane pronti” non solo per il ritorno di Elias, figliol prodigo, ma in quanto un’altra festa è vicina: l’imminente matrimonio di Pietro al quale è stata promessa in sposa Maria Maddalena Scada.

Elias, alto, snello, viso candido, capelli neri e occhi “azzurri-verdognoli” (mentre i fratelli sono bassi e “neri” in quanto vivevano sempre all’aria aperta), dal carattere sensibile e debole – in famiglia lo chiamano “su bellu mannu, il fiorellino di casa nostra” – ben presto sarà catturato da una passione fatale per la cognata Maddalena, che lo ricambia.

Il romanzo racconta il profondo dramma di Elias che non vuole tradire il fratello Pietro né fargli del male e del suo continuo tormento interiore mentre oscilla tra il pensiero di buttarsi nelle braccia della ragazza e la decisione di farsi prete per fuggire alla tentazione. Il libro, influenzato dalla poetica verista – Verga stimava la Deledda –  e che focalizza l’attenzione su usi, costumi, tradizioni e paesaggi della terra di Sardegna che la scrittrice conosceva bene, è pervaso anche da un accenno di decadentismo e da una sorta di psicologismo che stava emergendo in letteratura.

La vita di Elias è emblematica di quella di tutti gli esseri umani che sembrano privi di una vera volontà, sono “canne al vento” in balia del destino, di una sorte che il protagonista percepisce come “una malvagia sfinge che tormenta gli uomini”, anche quelli che, come lui, avevano cercato di fare il bene. In questa storia, come in tutti i romanzi di Grazia Deledda, emerge il pessimismo della scrittrice, la cui poetica si è focalizzata sulla sua amata Sardegna, sui temi del sacro e della religiosità, sul fato, sull’amore che spesso comporta dolore e morte, sulla colpa.

Scrittrice forse incrociata con indifferenza a scuola da molti di noi e poi dimenticata del tutto quando non addirittura snobbata, la Deledda è invece un’autrice da riscoprire. Non soltanto per i suoi romanzi, testimonianza storica di una Sardegna arcaica, non soltanto perché fu l’unica italiana a vincere il Premio Nobel per la Letteratura ed è tra le 10 scrittrici al mondo ad aver ottenuto l’ambito riconoscimento, ma in quanto in un’epoca in cui le donne erano costrette a dedicarsi esclusivamente alla casa e alle faccende domestiche, ad essere solo madri e mogli, lei è stata capace di coniugare la cura della famiglia con la profonda passione per la scrittura. Quando le donne erano ancora sottomesse all’uomo e considerate poco più che oggetti, Grazia Deledda è riuscita ad avere “una stanza tutta per sé”, nella quale ha prodotto romanzi, novelle, opere teatrali ed un vastissimo epistolario (scrisse a una moltitudine di letterati, giornalisti, editori e nobildonne del tempo). Virginia Woolf “Sparroy” o, se preferite, Virginia “Wallaby”, chissà quale soprannome avrebbe considerato adatto per la scrittrice sarda?

Elias Portolu di Grazia Deledda, Oscar Mondadori, pagine 192.

Il cibo nei romanzi di Grazia Deledda

Grazia Deledda nei suoi romanzi ha dato ampio spazio alle tradizioni della Sardegna anche attraverso una grande attenzione ai cibi della sua terra, un’isola dall’economia agro-pastorale. I prodotti sono semplici, il cibo sano: la ricotta, l’abbatthu (l’abbacchio), il formaggio fresco di pecora, il pane – soprattutto ma non solamente il famoso carasau (un pane di campagna che si conservava settimane senza ammuffire) – il bistoccu (il biscotto che viene servito agli ospiti insieme al caffè), il porcheddu arrosto. E poi, per le feste, familiari o pubbliche, c’erano dolci tipici come le seadas ricoperte di miele o il gattò, un dolce realizzato con mandorle dolci tostate, fili di arancia e limone e miele.

La scrittrice non si limita a nominare il cibo nei suoi libri ma spesso ne racconta la preparazione e ci rammenta che esso è cura e attenzione per chi amiamo. Grazietta, come era chiamata in famiglia, era tra l’altro un’ottima cuoca che conosceva molto bene le ricette della sua terra ma una volta trasferita a Roma si interessò anche della cucina del continente. La Deledda raccontava con ironia che quando il messo dell’Ambasciata di Svezia nel novembre del 1927 le portò a casa la notizia del conferimento del Premio Nobel, baciandole la mano la trovò “odorosa” di cipolla, in quanto ella aveva da poco terminato di preparare il soffritto per il sugo! 

Per scegliere una delle molte, prelibate ricette della tradizione sarda, citate anche nei romanzi, non avevo che l’imbarazzo della scelta ma poiché sto scrivendo negli ultimi giorni di Carnevale vi propongo un dolce sardo tipico di questo periodo dell’anno: le cattas, gustose frittelle dalla caratteristica forma a chiocciola, aromatizzate con lo zafferano e con il filu ‘e ferru (l’acquavite sarda).

La ricetta: Cattas (frittelle di Carnevale)

Ingredienti:

500 gr di grano duro rimacinato (se possibile, della Senatore Cappelli); 25 g di lievito di birra fresco, 100 g di zucchero, ½ litro di latte intero, scorza grattugiata di 1 arancia biologica, scorza grattugiata di 1 limone biologico, zafferano q.b, 1 bicchierino di filu ‘e ferru (l’acquavite sarda) che, se non trovate, potrete sostituire con 50 ml di Rhum e 500 ml di Moscato, olio di semi di girasole per friggere, 200 g di zucchero per decorare le cattas, 1 imbuto o, se volete rendervi la vita più semplice, un sac à poche.

Preparazione:

Far sciogliere il lievito con un po’ di latte tiepido, in un’altra ciotola mescolare la farina, il limone e l’arancia grattugiata, lo zafferano, mescolare e poi unire il lievito sciolto fino a formare un impasto denso non troppo liquido. Poi mettere a riposare per almeno 1 ora al coperto.

A lievitazione ottenuta, mettere a scaldare l’olio per la frittura, prendere un imbuto, ungere la parte stretta, metterci un dito sotto per chiudere, metterci 2 cucchiaiate di impasto e posizionandovi sull’olio bollente (regolando la fiamma medio bassa) fate scendere l’impasto formando una spirale dal centro verso l’esterno. Se vi trovate meglio, utilizzate per questa procedura un sac à poche.

Cuocere prima da un lato e poi dall’altro fino a doratura, poi scolarle su carta assorbente e successivamente passarle nello zucchero. Servire possibilmente calde.

 

Leggere con Gusto, la rubrica che parla di libri e cibo. 

Michela Scomazzon Galdi

Michela Scomazzon Galdi, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine dei Giornalisti del Lazio, mi occupo da oltre 20 anni di comunicazione e organizzazioni eventi nel settore della cultura. In anni più recenti ho scelto di lavorare “per le donne e con le donne” e aiuto le artiste, in particolare quelle emergenti, a promuovere le loro opere e i loro progetti (libri, mostre d’arte, piccoli festival di cinema ecc.) attraverso il supporto di una comunicazione a colori per contribuire insieme a diffondere bellezza nel mondo. Ho lavorato tanti anni per il Dialogo interculturale, anche attraverso un Festival di cinema e cultura ebraica da me ideato e del quale sono stata Direttrice artistica e organizzativa per 10 anni. Pasionaria, salvata dai libri, leggo, scrivo, fotografo (soprattutto la mia amata Roma), adotto meticci e sperimento ricette di cucina. Le mie parole guida nella professione? Cultura, Bellezza, Donne, Diritti, Colori. Il mio mantra professionale e di vita? Mettici più cuore e meno cervello.

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