Se la nostra prima lettura, quella del racconto di Dino Buzzati Il mantello, ha esplicitato in modo delicato quanto incisivo il problema della fragilità umana, avvertita profondamente dai singoli individui e dalla società in epoca post-bellica, il romanzo di Maria Grazia Calandrone Dove non mi hai portata (2022) ci conduce – con la prosa e il lessico della modernità – in una sorta di autobiografia storica, laddove La Storia non fa da sfondo alla vicenda, ma ne è parte integrante e interlocutoria.
Siamo nel 1960, dentro alla storia italiana. Che pare identica a quella di oggi, se non ovunque, almeno in molte parti d’Italia: un uomo e una donna si sentono fragili perché nella loro decisione di unirsi nell’amore reciproco, ancor più suggellato dalla nascita di una figlia, si sentono osteggiati e minacciati dalla Legge dello Stato. Che li induce alla fuga e al proprio volontario annientamento.
In un patto narrativo stretto a doppio nodo con il Lettore, Maria Grazia Calandrone lo induce a seguirla nel percorso storico di “testimonianza di fragilità sociale” non solo con la precisione delle date menzionate, ma anche con il ricorso alle fonti (storiche) inoppugnabili della fotografia, e, soprattutto – con un vero tocco di maestria – immergendosi insieme al Lettore stesso nei versi dei più celebri e toccanti poeti del novecento italiano, Caproni e Sereni.
Il ricorso al verso poetico è, forse, la cifra stilistica dell’autrice, capace di valorizzare il nodo tra poesia e prosa come chiavistello di trapasso da una lettura frettolosa e/o occasionale ad una lettura quanto mai personale e interiore.
“Cerco la storia nelle pagine della poesia, con totale fiducia, perché conosco che la poesia è sorpasso, addirittura inversione, di retorica e mitologia” (op.cit pag 79)
A cura di Sandra Tassi
Sandra Tassi legge “Dove non mi hai mai portata” di Maria Grazia Calandrone
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