Leggere “E tu splendi” di Giuseppe Catozzella, significa ricordare. Ritornare per un momento bambini, rivivere la bellezza dell’infanzia e quella voglia di giocare ogni partita come fosse la finale dei mondiali. Rivedere lo sguardo di Sandokan che intimorisce le tigri e imbarcarsi in un viaggio fantastico che serve solo a riabbracciare chi manca, quando ad asciugare tutte le lacrime bastava solo il fazzoletto lercio di un amico. Significa ricordare il “prima”, quell’istante che precede l’età adulta. Prima che arrivi il giorno in cui i cuccioli credono di essere diventati lupi. Prima di un gesto semplice come spostare un fascio di luce, solo per cogliere nel buio, i volti della fame.
Attraverso gli occhi di Pietro, un dodicenne confuso e smarrito, il mondo appare enigmatico ed imperfetto. Le sue stesse origini non gli saranno mai chiare, perché se vivi a Milanox, non sei milanese, ma un po’ sei del Brox, eppure al paese dei nonni non ti senti più neanche lucano e per tutti sarai sempre “il bambino milanese”. “Ad essere onesti fin da subito, eravamo una famiglia di invasori in una terra piena di ricchezze e di cose belle. Di nascosto eravamo andati a invadere per il lavoro un posto che non era nostro – questo ce l’aveva detto la suora dall’asilo, e per il rapporto speciale che aveva con Dio lei non sbagliava mai.” Ed eccolo il dito di una suora che punta gli “invasori”, il fulcro di una storia, il fondamento della Storia. Uomini, donne, bambini, nemici, ladri, conquistatori, occupanti e un colore della pelle che non sempre fa la differenza.
Il “diverso” è ignoto e l’ignoto fa paura, come la Madonna nera di Viggiano che senza i capelli biondi ed il mantello azzurro di una principessa, non sembra più la madre di Gesù. Questo, Pietro, lo capirà in un paesello del sud, a casa dei Nononni, con le signore che liberano le chiacchiere in una bottega, i braccianti che vivono nei lammioni al posto delle bestie, i possidenti delle terre bruciate, gli anziani amici dei bambini e zi’ Salvatore che in America non ci è tornato più, perché da Arigliana non ti puoi staccare due volte. Lì, dove un gruppo di immigrati si nasconde dalla morte, dove un gesto semplice come un bicchiere d’acqua diventa un passo verso l’umanità, ma anche un luogo in cui l’avidità e l’ignoranza generano un’ondata di insensato odio e violento disprezzo. Per la prima volta, Pietro si risveglierà, vedendo investire qualcun altro del ruolo di “invasore”. E mentre alcuni temono di perdere tutto, altri urlano che “quelli” non sono come “noi”, che non vanno a faticare all’estero, perché voglia non ne hanno, e altri ancora gridano al miracolo, senza capire che è solo paura, ed in fondo “la paura è una bugia”.
I nuovi reietti porteranno con sé storie fatte di fame “di pezzi di pane e sorsi d’acqua”. Un orrore che si sconfigge solo a parlarne davanti a un fuoco, finché le parole non sono più necessarie e niente più fa paura. Soli, affamati, senza una casa, senza una patria, di fronte a un pianoforte “scassato” che suona un motivo senza note, muto, come il dolore di chi non ha voce. Un urlo che torna a schiantarsi contro l’impenetrabile muro dell’ignoranza e dell’ostinazione. Uno schema malato che si ripete da sempre in un sud inguaribile. La delusione, la sconfitta, il fallimento, la povertà, “La nostalgia per ciò che poteva essere e non era stato”, il rammarico che porta con sé una rabbia sorda, che poi è un altro modo di soffrire. Solo una musica saprà irrompere nel silenzio. Una melodia proveniente dal mare, che raccoglie in sé ogni lacrima del mondo. Note che fanno danzare, sognare, piangere e poi sorridere. Che illuminano gli occhi di chi ha perso tutto, tutto tranne l’umanità. “Sognavano con gli occhi aperti, e in dialetto, perché i sogni si fanno in una lingua coraggiosa, se no non vengono.”
Catozzella accarezza temi importanti con leggerezza infantile e al contempo cammina sul cuore con passo leggero, non fa troppo male, ma lascia un’impronta. Una parola più dolce, un bacio più lungo, una lacrima libera, un sorriso svelato, una madre che non c’è più “che poi vuol dire che tua mamma invece di abitare fuori inizia ad abitarti dentro”. Il dolore per la perdita, in questo cuore bambino, il fiato sospeso per alleggerire un peso incombente, il frastuono del silenzio, una domanda senza risposta, la ricerca del pezzo mancante, l’odore dell’assenza “È incredibile come un armadio si tiene un odore per sé e non ne lascia un po’ anche agli altri. È incredibile l’egoismo degli armadi.”
“Era strano, perché più io e Nina prendevamo in mano quelle cose e ci giocavamo facendo finta che mamma era lì, più tutti e due venivamo morsi da un cane, però da dentro, e quei morsi facevano male perché sia a me che a Nina uscivano molte lacrime, però continuavamo lo stesso. Si può essere più scemi?”. Avrei voluto abbracciarlo forte Pietro, per dirgli che quel dolore che viene da dentro è straziante e necessario, che le lacrime sono la voce del cuore, che un “Canetto” dentro lo abbiamo un po’ tutti e che poi, col tempo, imparerà a mordere sempre un po’ meno forte “Perché non era un cane cattivo, era come i cuccioli quando mordono forte perché non sanno che per giocare devono mordere piano.”
Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.
“E tu splendi” di Giuseppe Catozzella, edizione Feltrinelli.
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