“Cecità” si apre con un avvenimento fin da subito cruciale: un uomo alla guida di un’auto, diventa improvvisamente cieco. Un evento che genera ansia, nel soggetto colpito dalla disgrazia, quanto nel lettore, ed il panico verrà evitato solo grazie ad un raro gesto di compassione che consentirà al malato di rientrare a casa con l’aiuto di uno sconosciuto, presunto benefattore. “Da un momento all’altro, quel che era visibile è scomparso dietro i suoi pugni chiusi, come se l’uomo volesse trattenere all’interno del cervello l’ultima immagine colta, una luce rossa, rotonda, a un semaforo.”
Protagonista del racconto è l’intera umanità, sprezzante e ammonitrice, e a riprova di questa coralità, Saramago non limita il racconto ad un tempo o ad un luogo ben definiti. Quasi per compensazione,invece, diventa epidemia, la cecità, che tutti sanno essere afflizione privata. Inizia così una discesa negli inferi: gli ammalati, soli, derelitti, abbandonati, verranno isolati in una struttura sporca e fatiscente, perché chi è ancora indenne, ne dimentichi l’esistenza. L’autore stesso finirà per diventare parte di questa umanità scartata, e come narratore esterno, ma mai onnisciente, si affiderà agli stessi personaggi per conoscere la realtà del mondo al di fuori della struttura, come se questi vivessero di vita propria ed anch’egli fosse prigioniero tra gli sfortunati. “Avrebbe dovuto diventare cieca anche lei per capire come ci si abitua a tutto, soprattutto se non si è più un essere umano”
Pur di fronte ad una condizione tanto estrema, Saramago, riesce, già dalle prime pagine, a rivolgere l’attenzione verso la (ormai) naturale diffidenza che la società contemporanea impone, e la vitale necessità di abbattere qualunque spirito di ingenuità. In un perpetuo circolo vizioso, proprio questa mancanza di fiducia sembrerà provocare l’abiezione (che solo forse la più egoistica paura può arginare) come fosse “un riflesso incondizionato” intrinseco dell’uomo. “Gli scettici sulla natura umana, che sono molti e ostinati, sostengono che se è vero che l’occasione non sempre fa l’uomo ladro, è anche vero che lo aiuta molto.”
Con una prosa nitida, cruda, vivida ed efficace, l’autore trascina il lettore nel vortice di terrore degli afflitti, i cui pensieri affondano lentamente nell’oblio dell’ignoto che tutto trasforma in minaccia. Un racconto asfissiante che si riflette in uno stile avaro di punteggiatura, i cui protagonisti, chiamati in causa per rappresentare l’umanità contemporanea, smarriscono l’identità e quindi anche il proprio nome. La paura di perdere la vista e di conseguenza qualunque orientamento, si sublima, così, in una scrittura fitta, che quasi confonde, non distinguendo il discorso diretto o l’inizio di un nuovo periodo. Pagine in cui immergersi (o nelle quali annegare), riempite da caratteri fino ai margini, che non lasciano alcuno spazio al respiro. Solo due occhi, nel bianco buio di un’eterna afflizione, resteranno testimoni dell’orrore.
Così, mentre cadono le certezze ed anche l’ora del giorno diventa un concetto relativo, il romanzo rivela la sua vera natura, non di resoconto di un isolamento che imbestialisce (prodotto di una realtà già disumanizzata e disumanizzante), ma piuttosto, di racconto rivelatore di una verità universale: “abbiamo finito col ficcare la coscienza nel colore del sangue e nel sale delle lacrime, e, come se non bastasse, degli occhi abbiamo fatto una sorta di specchi rivolti all’interno, con il risultato che, spesso, ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca.”
L’abilità di Saramago sta nel nascondere dietro un’inspiegabile epidemia (che provoca disagio, mai sofferenza fisica), la condizione degli esseri umani privati dei mezzi deputati al proprio sostentamento,che rassegna, perciò, il futuro degli sfortunati nelle mani di altri, nonché, una disamina dell’animo umano corrotto dalle leggi di una società egoista che cancella ogni espressione di pietas o di solidarietà: “È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria”.
Con il procedere del racconto, la situazione che in principio appare piuttosto fantasiosa, diventa, invece, riconoscibilissima in un mondo in cui insistono prepotentemente la povertà estrema, la guerra, la prigionia o la semplice noncuranza. L’autore, partendo dunque da un assunto “improbabile”, conduce il lettore verso l’esplorazione di una parte di umanità di cui deliberatamente ignora le condizioni, e più e più volte, saranno gli stessi protagonisti e rivelare tale verità: “eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi”.
Distopia e metafora della nostra realtà, il romanzo, offre ai personaggi, nel momento di peggiordecadimento possibile, ancora un’ultima possibilità di salvezza: costruire, partendo da zero, una società nuova, funzionante, egualitaria e priva di ingiustizie. Un’utopia che andrà, ancora una volta, ad infrangersi contro la perversa e maligna natura umana. Si giungerà, allora, ad una definitiva regressione, passando dalla tribale legge del più forte, fino ad arrivare alla totale perdita di un ordine costituito. Resterà solo un sedimento: ceneri di un’umanità, che abbandonando ogni pudore, combatte per sopravvivere e non più per vivere, sconfitta dalla scomparsa di tutto ciò che un tempo era scontato. “deve ancora nascere il primo essere umano sprovvisto di quella seconda pelle che chiamiamo egoismo, ben più dura dell’altra, che per qualsiasi cosa sanguina.”
Solo ad un passo dall’estinzione, sentiranno, alcuni, ancora una volta la necessità di una guida per la nuova vita, perché questa non continui a degradare, auspicando la nascita di un’organizzazione in grado di indirizzare, piuttosto che governare, un mondo rinnovato. Un desiderio questo, che riflettendo chiaramente le idee anarchiche dell’autore, potrebbe, in fondo, trovare realizzazione, se solo la maggioranza non preferisse affidarsi alle false credenze di antichi o più nuovi riti, e se l’uomo possedesse la primaria e necessaria abilità che mai ha avuto: vedere. “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.”
Se c’è un cadavere ci teniamo lontani, a questo punto i morti non ci fanno più paura, Per me è più facile, non li vedo.
“Cecità” di José Saramago, edizione Feltrinelli.
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