“Cujo” di Stephen King: recensione libro
“Il cane che era cresciuto con lui, il cane che aveva pazientemente trascinato in giro per l’aia un bambinetto urlante di gioia sulla sua macchinina a pedali, imprigionato dalla bardatura che gli aveva costruito Joe in officina, il cane che aspettava ogni pomeriggio pazientemente vicino alla cassetta delle lettere l’arrivo dell’autobus della scuola, con il bello e il brutto tempo… quel cane era solo un vago ricordo a confronto di quell’apparizione che lentamente si andava materializzando nella nebbia del mattino.”
È questo il destino delle cose belle, a Castle Rock: trasformarsi in qualcosa d’altro, trasformarsi in vaghi ricordi che sono felici solo nella memoria. Come un matrimonio che viene corrotto dalla lordura di un tradimento. Come un’avventura professionale che naufraga nel sangue di un prodotto chimico sbagliato. Come una famiglia che si perde nelle violenze quotidiane, nel rancore, nel desiderio di qualcosa di diverso, nell’impossibilità di lottare per quello che si ha quando l’orrore te lo porta via per sempre. Come quel mostro impalpabile che aspetta il suo momento tra i vestiti e i giocattoli di un armadio nella camera di un bambino.
Cujo, l’enorme San Bernardo della famiglia Camber, incarna l’anima oscura di Castle Rock. È rappresentazione fisica delle anime che vanno alla deriva quando i piccoli sbagli quotidiani si moltiplicano trasformando ciò che era bello in qualcosa di diverso, in un ‘altro’ che appare incomprensibile solo perché si sono persi i pezzi del puzzle che lo compongono. Castle Rock, una Derry ante-litteram, un luogo che nasconde orrori ai quali però, in qualche maniera, gli esseri umani tentano di opporsi. Orrori più sottili, meno potenti e ancestrali di IT. Orrori contro i quali, in qualche modo, è possibile combattere.
Lo stesso Cujo, nella sua metamorfosi catalizzata dalla rabbia trasmessagli da un pipistrello, tenta di aggrapparsi ai suoi ricordi. Prova a ribellarsi ma non può vincere. La degenerazione patologica cui è sottoposto, la distruzione del suo cervello per mano del virus, assomiglia pericolosamente allo schianto di una mente umana quando il dolore, l’egoismo, la cattiveria, il narcisismo o anche semplicemente la paura prendono il sopravvento.
Guarire dalla malattia – per qualcuno – è possibile. Ma restano cicatrici, ferite profonde. Resta l’impressione di aver fatto qualcosa per meritarsi l’orrore, resta la convinzione di non aver fatto abbastanza per combatterlo. Resta soprattutto l’inquietante consapevolezza di non essere innocenti: perché se per Cujo la rabbia e la degenerazione non sono mai state una scelta ma il susseguirsi di un domino sfortunato di eventi, per gli altri, per Vic, Donna, Charity, Joe, per tutti gli altri, per noi, si può dire lo stesso?
Cujo non è un romanzo perfetto, per più di un motivo. Eppure le sue pagine sono intrise di una ferocia appariscente e sanguinaria, quella di Cujo, che però si rivela essere poca cosa rispetto al senso di perdita misto a speranza che ci resta incollato addosso. Rispetto alla consapevolezza di una coscienza oscura strisciante, in agguato, pronta a infestarci e a sfruttare i nostri più piccoli errori con il solo scopo di fare del male.
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