“Cavie” di Chuck Palahniuk: recensione libro
“Cavie” di Chuck Palahniuk è un libro difficile, crudo, denso di dettagli apparentemente insignificanti. Il sottotitolo è “Un romanzo di storie”, e sono proprio queste storie a dare corpo alla linea narrativa principale, la quale, senza questi racconti dedicati ai protagonisti, sarebbe molto più snella e probabilmente meno avvincente. Quello che è certo è che dall’inizio alla fine Palahniuk colpisce duro, imbastendo scene raccapriccianti e scandalose. Se siete debolucci di stomaco potrebbe bastare già il primo racconto a farvi decidere di non andare avanti. Oltre è anche peggio.
Diciannove personaggi in cerca d’autore
Tanti sono i personaggi che popolano questo romanzo, e ognuno di loro avrà modo di presentarsi almeno in un racconto. È tramite le loro storie che il filo conduttore del romanzo viene a galla. Prendete un gruppo di scrittori irrisolti, attirateli con la promessa di un ritiro producente. Fategli scegliere una cosa, e una cosa soltanto da portarsi dietro. E adesso aspettate. Aspettate che si consumino tentando di scrivere la storia che li renderà famosi. Non c’è bisogno di un mostro fuori dalla porta, se il mostro siamo noi.
È tramite questi personaggi che Chuck Palahniuk, ancora una volta, demolisce la società. La fa a pezzi proprio come fanno i personaggi tra di loro. Senza troppo clamore, senza troppe ragioni. Persino senza troppe convenienze. Lo fanno perché sono liberi di farlo. Citando il Joker di Nolan “La follia è come la gravità, basta solo una piccola spinta”, e una piccola spinta era l’unica cosa che serviva a questi personaggi per arrivare ad auto sabotarsi. Quando la sofferenza è un’ottima merce di scambio, la salvezza non è la via più conveniente. È più facile trovare l’alibi perfetto che accettare i nostri fallimenti. È colpa del lavoro, della società, dei miei genitori. Con l’alibi giusto, possiamo riscattarci da ogni cosa.
Nella ruota del criceto
Oltre allo stile di scrittura di Chuck Palahniuk che adoro, spoglio di fronzoli ma ricco di senso, oltre alla costruzione impeccabile del ritmo e della storia, della circolarità con cui vede e tratta ogni cosa, dalla frase, al racconto, all’arco narrativo, un’altra caratteristica fondamentale che ho individuato è la sua estraneità alla storia. I suoi personaggi sono una telecamera con cui inquadra il teatro che ha imbastito, e come l’obiettivo di una telecamera, l’autore non esprime nessun giudizio. I suoi protagonisti narranti non agiscono di propria iniziativa, ma reagiscono a una storia portata avanti da qualcun altro: ne vengono travolti, e la raccontano con un distacco tale per cui è possibile se non condividere, almeno accettare ogni cosa.
In Cavie il protagonista non è nemmeno un individuo, sappiamo che esiste, che sta nel gruppo, ma è per mezzo del gruppo che racconta la vicenda. Nessuno gli rivolge la parola e non ne pronuncia nemmeno una. Qualsiasi cosa abbia da dire, la dice perché la sta vivendo insieme agli altri, anzi, perché la stanno vivendo gli altri: “La prima settimana abbiamo mangiato filetto alla Wellington, intanto che Miss America si inginocchiava accanto alla maniglia […] Abbiamo mangiato branzino striato mentre Miss Starnuto ingoiava pillole […] Abbiamo mangiato tacchino Tetrazzini mentre Lady Barbona giocherellava col suo anello.” Sono gli altri a vivere la storia e a mandarla avanti. Il nostro protagonista non fa nulla, non pensa nulla, e quindi non esprime nulla.
È anche l’unico senza un nome, l’unico senza un racconto, l’unico che non viene presentato durante il viaggio verso la villa. Tutti sono arrivati con un bagaglio e qualcosa di irrinunciabile. Tutti tranne il nostro protagonista. È in questo modo, svuotato da ogni caratteristica che Chuck può raccontare la storia senza caricarla del suo giudizio morale. Lui, semplicemente, sta a guardare lo schifo e la miseria che il mondo mette in scena. È una specie di documentarista che ci spiega senza emozione in che modo il leone caccia la gazzella, e l’unico mezzo che abbiamo per estrapolare la sua visione, è analizzando i soggetti su cui sceglie di puntare l’obiettivo.
È tramite loro che costruisce la sua narrazione e la sua critica al sistema occidentale (quando va bene, all’uomo in sé quando va peggio). L’estraneità dei suoi protagonisti è un tratto fondamentale del suo stile, e se qui è più palese che in altri lavori, lo stesso vale per Invisible Monsters o Soffocare. Sono attori che si mettono dietro la macchina da presa; sono lenti per mettere a fuoco le assurde storie che ci srotola davanti sotto gli occhi come tappeti magici.
Voglio diventare il suo discepolo. Dove si firma?
“Cavie” di Chuck Palahniuk, edizioni Mondadori, 2005. Malditesto.