Inutile nascondersi dietro un dito, la storia di Buddy Suttree non è libro da consigliare a cuor leggero: scritto in un inglese di qualche secolo fa, mirabilmente ricalcato dall’ottima traduzione italiana, disconnesso sul piano temporale, iperdescrittivo, spesso una mera galleria di quadri di Hopper, ritratti d’individui sopraffatti e pietrificati nella solitudine dell’attesa.
Siamo negli anni cinquanta e la miseria è quella della grande depressione, siamo negli anni cinquanta è l’alcolismo è quello del proibizionismo. Solo la rassegnata disperazione sembra peggio di quella di vent’anni prima. Viene il sospetto che il paese più ricco del mondo viva da sempre, e sempre vivrà, con la grande depressione nascosta sotto il tappeto e che a qualche scrittore toccherà in sorte di afferrarlo per le frange e farci dare un’occhiata sotto. Lo ha fatto Edgar Lee Masters, lo ha fatto Steinbeck, lo ha fatto Cormac McCarthy, qualcuno lo starà facendo e qualcun altro lo farà domani. Qualcuno canterà le gesta di un altro Cornelius Suttree, l’epico protettore dei vinti, degli umiliati e offesi, degli Harrogate di questo mondo, folli ingenui individui cui non è concesso il lenimento della rassegnazione, esploratore di corti dei miracoli nei sotterranei di Knoxville, pescatore di anime perdute, di anime senza Dio per scelta, di anime cui basta la leggenda di un santo, di un santo pescatore di pesci gatto in un limaccioso Gange del Tennessee che riverbera suoni malinconici, suoni di “Memphis blues again”, ma tace quando il vecchio straccivendolo smette di disegnare cerchi per dire al pescatore:
“Non sono un miscredente. Non far caso a quello che dicono.
No.
Ho sempre pensato che esiste un Dio.
Già.
È solo che non mi è mai piaciuto.”
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“Suttree” di Cormac McCarthy, edizioni Einaudi. I libri di Riccardo