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La felicità del lupo secondo Paolo Cognetti. La nostra qual è?

La felicità del lupo, così si intitola l’ultimo romanzo di Paolo Cognetti. Ovunque troviamo scritto “dall’autore de Le otto montagne” ma alla fine, da lettrice che cresce così come crescono gli autori, ogni suo romanzo dedicato alla montagna non è paragonabile a quello precedente.

Ad ogni romanzo c’è un Paolo Cognetti più grande, maturo e che racconta necessità diverse. Oggi si cerca di conoscere quale sia la ricetta della felicità, come fare per accettare questo destino o se invece siamo come i lupi che seguono regole differenti.

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La felicità del lupo: significati

Credo che tu e io questa storiella la possiamo capire bene, perché quel posto è pieno dei significati che gli abbiamo dato noi. I significati stanno lì tra i campi, i boschi e le casette di pietra. Quando per me la montagna significava libertà, vedevo libertà perfino nelle mucche al pascolo! Ma la montagna in sé non ha nessun significato, è solo un mucchio di sassi su cui scorre l’acqua e cresce l’erba. Ora per me è tornata a essere quello che è.

In queste poche righe Babette, la proprietaria della locanda dove lavora Fausto, riassume il senso di questa storia. Ogni lettore vede ciò di cui ha bisogno in quel momento; può anche non trovarci nulla, come è successo a me un paio di settimane fa.

Una manciata di personaggi si muovono su queste montagne e ognuno trasferisce nel luogo e nell’odore di legno l’immagine che voleva vedere riflessa in quell’acqua cristallina. Un gioco di specchi, forse? Un tentativo di ragionare su fughe necessarie per ritrovarsi? Silvia, la ragazza che sa di gennaio, dice una cosa interessante a tal proposito.

Era tornata perché si sentiva pronta, dopo una fuga che le sembrava lunghissima. Avrebbe detto questo a Fausto: che prima di andare avanti lei doveva tornare indietro, altrimenti sarebbe rimasta sempre una che scappava.

La felicità del lupo: polimorfi bisognosi

Da qualche parte Fausto aveva letto che gli alberi, a differenza degli animali, non possono cercare felicità spostandosi altrove. Un albero viveva dov’era caduto il suo seme, e per essere felice doveva arrangiarsi lì. I suoi problemi li risolveva sul posto, se ne era capace, e se non me era capace moriva. La felicità degli erbivori invece inseguiva l’erba, a Fontana Fredda era una verità lampante: il marzo in fondovalle, il maggio nei pascoli dei mille metri, l’agosto negli alpeggi intorno ai duemila, e poi di nuovo giù per la felicità più piccola dell’autunno, la seconda modesta fioritura. Il lupo obbediva a un istinto meno comprensibile.

A questo punto il lettore chiuderà il libro domandandosi quale forma ha bisogno di assumere in quel momento, se albero, erbivoro o lupo.

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Ylenia Del Giudice

Classe '89, romana. Libraia per vocazione, leggo scrivo leggo ancora e parlo di libroterapia

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