Interviste

“L’uomo che guardava le stelle”: l’intervista all’autore Joe Stillman

«Osservare Bill mi fece ripensare a un sacco di tempo prima, quando anch’io mi facevo incantare dal cielo stellato. Quell’incanto però finì più o meno quando persi interesse per le cose sulla terra. Adesso provavo di nuovo quella sensazione di meraviglia. Non era tanto per le stelle, quanto piuttosto per l’uomo in piedi nel buio che le stava osservando.»

La casa editrice Blu Atlantide ormai ci ha abituati a portare in Italia gemme di quella narrativa di qualità che ci fanno ancora sperare nella forza della letteratura. Era successo di sperimentare questa fiducia verso l’editore con Tiffany McDaniel e L’Estate che sciolse ogni cosa, fiducia che con il tempo e le successive pubblicazioni si è trasformata in affetto e speranza. Sentimenti e aspettative che Blu Atlantide non delude. Nelle scorse settimane, attratto dalla copertina, ho notato sugli scaffali del mio libraio di fiducia L’uomo che guardava le stelle di Joe Stillman. Mi sono ritrovato a sfogliarlo, a leggere qualche passaggio e sono stato rapito da una scrittura semplice ma elegante, dosata, calibrata nel raccontare i pensieri e la natura umana con un’incredibile sensibilità.

L’uomo che guardava le stelle di Joe Stillman potrebbe configurarsi come un romanzo di formazione, con alcuni elementi che ammiccano allo young adult. La storia è raccontata, anzi svelata, da Belutha, l’adolescente figlia di Maybell, proprietaria di un piccolo diner in paese sperduto dell’Arizona, in cui arriva per proporsi come nuovo cuoco un uomo di nome Bill.

Bill è tipo singolare, senza passato e sbucato dal nulla, sembra avere la capacità di leggere nel pensiero. Immaginate di entrare in un ristorante dove il cuoco è consapevole di cosa vogliate mangiare ancora prima di prendere l’ordinazione… questo è il Maybell’s Diner a Hadley, in Arizona. La presenza di Bill ha la forza di cambiare le persone, di colmare i vuoti, di mostrare la vita sotto altre prospettive. La vita di Maybell, proprietaria del diner, cambia, e di Belutha, sua figlia adolescente e perennemente in conflitto con lei, che interagendo con Bill scoprirà qualcosa di sé che non pensava di possedere e che ha a che fare con l’essere visti, e amati. Bill forse conosce davvero i segreti dell’universo, per questo Rose, una settantenne in rotta con il Mondo, e Martin, un malato terminale che cerca nel cuoco delle stelle la risposta alla propria paura della morte, si affideranno a lui entrando a far parte dello staff del Maybell’s per affrontare insieme il mistero più grande: il fatto che le nostre esistenze sono intrecciate e che a volte bisogna credere in quello che non sappiamo spiegarci.

Leggere questo romanzo mi ha ricordato alcune atmosfere del film K-Pax con Kevin Spacey nel ruolo di Prot, un paziente del reparto di psichiatria di una clinica che afferma di venire dal pianeta K-Pax nella costellazione di Lira, insensibile alle terapie farmaceutiche e con una forte influenza sui pazienti della struttura. Il legame tra cinema e letteratura è, infatti, molto forte per lo scrittore Joe Stillman, noto al grande schermo come sceneggiatore del film animato Shrek.

Ho raggiunto Stillman al telefono e scambiato con lui qualche battuta sul mestiere di scrivere. È una persona amabile, che si racconta ai “microfoni” di TheBookAdvisor senza filtri. Gli ho chiesto cosa abbia fatto innescare in lui la scintilla, la voglia di diventare un autore e Stillman ha raccontato di un episodio, quando era ragazzo e aveva visto in televisione uno show, The Waltons, in cui il protagonista, John Boy, si sedeva ogni sera a scrivere un diario su un blocco. Joe Stillman ha passato al setaccio i negozi alla ricerca di quel taccuino usato da John Boy, su cui ha cominciato a scrivere il suo diario. Poi gli è capitato di vedere uno show della PBS, chiamato Steambath, e ne è rimasto così colpito a tal punto da usare il blocco simile a quello di John Boy che aveva comprato per scrivere la sua prima sceneggiatura.

«Actually, there were two things that I saw on TV when I was a boy. The first was a show called “The Waltons”, where the main character, John Boy, would sit down to journal every night on a pad. After watching that show, I scoured the stores for days to try to find a pad that looked just like his. Then I started my own journal. The second thing I saw was a play, shot on video for PBS. The play was called “Steambath,” starring Bill Bixby. I loved it so much, I sat down and wrote a play of my own on one of those “John Boy” pads I found. The play was horrible, but that’s just what a first play is supposed to be.»

C’è qualcosa di incredibilmente suggestivo nel leggere delle piccole cittadine della provincia americana, dei luoghi e delle persone. L’ambientazione diventa un personaggio aggiuntivo nell’opera di Stillman, il Maybell’s Diner sembra essere reale, una delle tante tavole calde al servizio di piccole comunità in cui l’autore potrebbe aver passato ore a bere caffè e osservare le persone. Joe Stillman mi racconta di quando, a quattordici anni, ha lavorato in un campo scout nello stato di New York e si è ritrovato a frequentare una tavola calda alla stazione:

«About small towns; starting at age 14, and for five summers, I worked at a Boy Scout Camp in Upstate New York. The town was so small, it had a train stop, but no station. Next to where the train stopped, there was a tiny diner with just one counter and a few tables. On my day’s off from working at camp, I’d get dropped off at the diner, order some eggs and wait for the train so I could ride back to my parents’ home with a sack full of dirty laundry. I can still smell the tar on the railroad ties by the track. This was back when the U.S. had more empty, quiet spaces where not much of anything happened.»

L’uomo che guardava le stelle di Joe Stillman è un’ottima lettura, una storia di vita che, considerata l’esperienza di Stillman come sceneggiatore, è facile chiedersi se non sia in cantiere una trasposizione per il grande schermo. Una storia che, come si apprende dalle parole dello stesso Stillman, era stata inizialmente concepita come sceneggiatura nel 1992, per poi essere trasformata venticinque anni dopo proprio in quel romanzo che vi suggerisco assolutamente di leggere:

«…when I began writing this story, back in 1992, it was actually a screenplay intended for an independent film. I had figured out most of the characters pretty early on. But the hard part was Bill. I didn’t know how to tell his story, as I was concerned that being too direct about him might be off-putting to a movie audience. I wrote at least 40 drafts over 25 years. That’s pretty embarrassing to say. Each time I finished a draft, I convinced myself that the story was finally done and told myself that the time I put in was justified. But then after working on a job for hire, I’d come back to this story and realize it wasn’t there. So after those 25 years I decided to write it as a novel, just so the story would have a life somewhere other than on my computer. The day I sat down to do that, everything clicked into place. Now that I’ve found Bill, and the story does what I always hoped it would do, my dream would be to adapt the novel into a movie.»

“L’uomo che guardava le stelle” di Joe Stillman, Edizioni Atlantide. 

Intervista a cura di Antonio Lanzetta per The BookAdvisor.

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Redazione della pagina web www.thebookadvisor.it

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