Libri in pillole

“La ciociara” di Alberto Moravia: recensione libro

“La guerra è la guerra”, afferma più volte Concetta, una contadina semplice e pragmatica, mentre attorno a lei si materializzano, quasi come se si potessero toccare con mano, le terribili conseguenze della guerra sui civili. La guerra è la guerra, ripete la donna, come in un tentativo di esorcizzare e giustificare una trasformazione rapida e inesorabile, nei cuori, nelle menti, nelle azioni di chi sta sperimentando quotidianamente sulla propria pelle il terrore della morte, la disintegrazione del mondo attorno a sé, e che ha ben capito che la guerra equivale a una grande porta che, una volta varcata, non consente di tornare indietro.

Perché la guerra cambia, stravolge, trasforma, modifica radicalmente comportamenti, relazioni, pensieri, priorità, necessità. Soprattutto quando ci si ritrova in guerra senza conoscerne le motivazioni, senza capire neanche da quale parte bisogna stare, diventando così i veri e propri sconfitti a prescindere dall’esito finale.

Ma non è Concetta la principale protagonista de La ciociara di Alberto Moravia, bensì Cesira e sua figlia, due donne in fuga da Roma, una città che, assediata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, attende lo sbarco degli alleati. Madre e figlia, dunque, che fuggono per rifugiarsi sui monti nei dintorni di Fondi, lì dove risiedono contadini e sfollati che, benché ignari di giochi politici e di schieramenti militari, condividono lo stesso terrore: quello delle bombe che cadono dall’alto colpendo indiscriminatamente uomini, donne, bambini, anziani. È questo ciò che possono vedere e null’altro, perché le informazioni sono frammentate, parziali, incomplete, e l’unica strategia possibile è pensare a sé stessi, alle proprie faccende, ai propri negozi.

“S’ammazzassero pure quanto volevano, con gli aeroplani, con i carri armati, con le bombe, a me mi bastava il negozio, e l’appartamento per essere felice, come infatti ero. Del resto sapevo poco della guerra, perché sebbene sappia fare i conti e magari mettere la firma su una cartolina illustrata, a dire la verità non si leggere bene e i giornali li leggevo soltanto per i delitti della cronaca nera, anzi, me li facevo leggere da Rosetta. Tedeschi, inglesi, americani, russi, per me come dice il proverbio ammazza ammazza è tutta una razza. Ai militari che venivano a bottega e dicevano: vinceremo là, andremo qua, diventeremo, faremo, io gli rispondevo: per me tutto va bene finché il negozio va bene”.

Il prezzo della guerra, però, è salatissimo, e non militarmente parlando: perché la guerra lacera, irrigidisce, mortifica, crea separazioni, conflitti sociali, mettendo in competizione la gente comune, quella che subisce lo stupro della propria terra, che non può fare altro se non osservare inerme la devastazione delle proprie case, delle proprie famiglie, dei propri vicini. Gente costretta a respirare l’odore della morte che striscia lungo le strade, e che capisce ben presto che c’è un solo obiettivo da perseguire: sopravvivere. Ma per farlo è necessario inasprirsi, chiudersi, diventare individualisti: perché nelle ristrettezze non c’è spazio per la collettività, soprattutto quando in gioco c’è la propria vita.

“Dico la verità: gli sfollati erano più ricchi, almeno alcuni di loro; da loro si mangiava meglio; sapevano leggere e scrivere; non portavano le ciocie le loro donne erano vestite come donne di città: ciò nonostante, fin da quel primo giorno e poi in seguito sempre più, preferii i contadini agli sfollati. Questa preferenza forse derivava dal fatto che io, prima ancora che bottegaia, ero stata contadina; ma soprattutto secondo me, dalla strana sensazione che io provavo di fronte agli sfollati, specie se li confrontavo con i contadini: come di gente a cui l’istruzione non era servita che a renderli peggiori. Un po’ come avviene a certi ragazzini discoli i quali, appena vanno a scuola e imparano a scrivere la prima cosa che fanno è coprire i muri con le parolacce. Insomma io dico che non dovrebbe bastare istruire la gente; ma bisognerebbe anche insegnargli come fare uso dell’istruzione”.

La ciociara è un libro importante, perché attraverso la narrazione di Cesira e Rosetta Alberto Moravia ci racconta la guerra vista e patita dal popolo, racconta l’isolamento, la speranza, lo stato di forte degrado nel quale gli italiani furono costretti a vivere durante la seconda guerra mondiale. Ma racconta anche l’arretratezza culturale di un Paese che avrebbe voluto reagire, ragionare, farsi un’idea di ciò che stava accadendo, ma che non aveva strumenti per farlo, e l’unica speranza era aggrapparsi a un ideale di liberazione che tuttavia tardava a concretizzarsi.

“Quel cannone sparava sui nazisti e sui fascisti e ogni colpo che sparava era un colpo su quella prigione di bugie e di paura che loro avevano costruito in tanti anni e questa prigione era grande come il cielo e adesso crollava d’ogni parte sotto i colpi di quel cannone e tutti potevano adesso respirare, perfino loro, i fascisti e i nazisti, che presto non sarebbero più stati costretti a essere fascisti e nazisti ma sarebbero tornati ad essere uomini come tutti gli altri”.

Moravia racconta tutto questo con grande maestria, costruendo un romanzo che quasi assume la forma di un reportage ripreso direttamente sul campo, in cui le voci che raccontano il conflitto, però, non sono quelle dei grandi capi militari, bensì quelle dei contadini, dei bottegai, degli operai, del popolo insomma, testimone genuino delle atrocità di una guerra che lasciò in eredità solo morte, povertà e devastazione.

“La ciociara” di Alberto Moravia, edizioni Bompiani. Libri in Pillole.

Alessandro Oricchio

Dottorando in studi politici Sapienza Università di Roma, speaker di Teleradiostereo, giornalista pubblicista iscritto all'Odg del Lazio. Amante dei libri, dei viaggi, del calcio, della lingua spagnola, del mare e della cacio e pepe.

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