Sussurri tra le pagine

“Ricordo di un’isola” di Ana Maria Matute: recensione libro

Ana Maria Matute conobbe da bambina gli orrori della guerra civile spagnola, esperienza, questa, che traspose in buona parte della sua produzione letteraria futura. Con particolare attenzione alla dimensione umana, l’autrice scelse spesso di concentrare i propri racconti sulle categorie più fragili, che, private di qualunque tipo di difesa, subiscono la guerra con particolare violenza, partendo innanzitutto dai più giovani.

 

 
“Ricordo di un’isola” è un romanzo di memorie, quelle di Maria, che, ormai adulta, ricorderà sé stessa, prima bambina, poi giovane adolescente, ribelle, sola e privata dell’amore dei suoi genitori dalla morte
Capo Formentor – Maiorca (2007, Brisckerly, GNU free Documentation License, Wikimedia Commons)
quanto dalla vita. Sarà lei, quindi, a raccontare dell’isola di Maiorca sulla quale fu costretta a vivere sotto il matriarcato dell’austera nonna, del padre naufrago dalle idee sbagliate, da reinventare come arma di difesa, della guerra civile che su quella terra insulare, giunse solo come un’eco lontana, e di una casa, piena di segreti e fatti sussurrati, spaventosi, irripetibili solo in teoria, come gli ebrei che bruciavano vivi nella vecchia piazza del paese. Racconti notturni, perché la luce del giorno non ne tradisca l’esistenza. “Con uno strappo si era squarciata la nebbiolina sottile, il velo che ancora mi teneva staccata dal mondo. Con uno strappo brutale apparve tutto quello che non avrei voluto sapere.”
 
L’isola è declivi, spiaggette nascoste, relitti di barche custodi di tesori e cocci di conchiglie. È l’abbandono ad un silenzio che solo forse la campana della chiesa sa infrangere, come un grido di protesta che si solleva dall’anima del paese. Una terra di odio profondo, di centri bruciati, di cavità annerite e guerre rinnovate. Di isole sull’isola, per confinarsi, proteggersi, sopravvivere innanzitutto, come gli empi lebbrosi che mai conobbero misericordia. “L’odio erompeva in mezzo al silenzio, come il sole, simile a un occhio congestionato e iniettato di sangue attraverso la bruma. Là, sull’isola, mi era sempre parso sinistro il sole, che levigava le pietre della piazza e le lasciava lustre e scivolose come ossa o come un avorio maligno e strano.”
 
Sarà l’odio, dunque, il nucleo attorno al quale graviteranno i personaggi del romanzo, movente e causa,
Ana María Matute
renderà ognuno di loro vittima, più o meno consapevole, della stessa terribile malattia. Come Lauro, Borja e Matia stessa, carichi di un differente tipo di rabbia, verso sé stessi o verso il mondo intero, repressa, nascosta, che in egual modo troverà sfogo sulla pelle propria o su quella altrui. E poi c’è Manuel, il ragazzo triste, l’unico che avrebbe avuto il diritto di essere furioso. Il reietto, l’ebreo, il figlio del povero fattore: uno scarto di umanità. Manuel, che diventa adulto nel tempo di un battito di ciglia e senza versare una lacrima. “Quando mi guardò quel ragazzo (che nessuno in paese stimava, figlio di un uomo morto per le sue idee peccaminose), mi sentii ridicola, insignificante. Sentii un’ondata di sangue al viso, e mi vennero in mente, tutti in una volta, gli echi delle mie fanfaronate, l’aroma delle Muratti, le mie arie di superiorità e perfino le mie caramelle alla menta, come cose sciocche e senza senso. Non seppi più proferire parola.”
 
Attraverso una prosa densa, descrittiva, poetica e frammentaria, Ana María Matute rievoca ricordi malinconici e dolorosi, spesso interrotti dalle digressioni dell’io narrante, che mediante la consapevolezza che solo lo scorrere del tempo sa donare, osserverà in modo diverso fatti che al tempo non riuscì a comprendere del tutto. Le memorie del passato assumono, così, spesso, toni rarefatti, impalpabili, evanescenti, facendo pensare, talvolta, che Matia, da bambina, possa essere stata affetta da una debolezza nel corpo o nello spirito. Ne scaturisce un racconto che sfiora la dimensione onirica, profondo ed interiore, quasi come se la narratrice, intendesse soprattutto dialogare con sé stessa per far pace con i propri ricordi, con la progressiva perdita dell’innocenza, che la portò, controvoglia, ad affacciarsi al mondo corrotto degli adulti. “Lo guardai, mentre il sangue mi saliva al viso, e desiderai pazzamente dirgli: <<No, non rivelarmi altro, non dirmi cose oscure degli uomini e delle donne, perché non voglio sapere nulla del mondo che non capisco. Lasciami, lasciami stare, che ancora non lo capisco>>. Ma a lui succedeva come a me: come con l’infezione guarita grazie al coltellino di Mauricia. Era di profilo, circonfuso dalla luce verde dei mandorli. Come piccoli animali sulla terra sassosa, scivolavamo verso il basso, lungo la pendenza del declivio. Solo in quel momento mi accorsi che, impercettibilmente, scivolavamo giù.”
 
Anche la guerra, che resterà per l’intero racconto un fatto noto ma marginale, vista attraverso occhi giovani, nell’età in cui i sogni non hanno ancora un prezzo, assume forme incerte e finisce per ridursi a poche maldicenze, che infide, si insinuano nella mente acerba e fertile di chi non ha avuto ancora tempo di formare un pensiero proprio. Così il conflitto si banalizza, riducendosi ad un inutile: “noi contro loro”. Replicata dai ragazzi dell’isola, sotto forma di futile ed infantile battaglia tra bande, la guerra civile fornirà solo immagini confuse, distorte, come quelle che regala l’infanzia quando di colpo svanisce e lascia il posto all’ignoto dell’adolescenza. “Allora la sua mano si alzò e ricadde sopra la mia. Mi premette la mano contro la terra, come se volesse fermarmi, perché non cadessi là sotto, verso quella grande minaccia. Verso la vertigine azzurra e densa, allucinante, che avevo provato dall’alto della piazzetta dove bruciavano gli ebrei, a picco sulla scogliera. Come se con lui, con la sua mano, con la mia infanzia che se ne andava, con la nostra ignoranza e bontà, volesse affondare le nostre mani per sempre, conficcarle nella terra ancora pulita, vecchia e saggia.”
 
“Ricordo di un’isola” è un romanzo che mi ha sinceramente avvinta con la sua delicatezza, il suo incedere lento ma potente, la sua capacità di scavare nelle profondità dell’io narrante, di colpire e di imprimersi meravigliosamente. Un libro fatto di ingiustizie, immagini cruente stampate su un giornale, incomprensioni, solitudini, guerre, bicchieri di cognac vuotati troppo in fretta, sigarette di contrabbando, pupazzi nascosti negli armadi fatti solo per volergli bene, cani morti, acqua putrescente, disperazione, consapevolezza, sacrificio, fruste feroci, uomini liberi come il vento, cause perdute e, solo infine, folli amori. “Sapevamo che il sole non poteva nulla contro di noi, finché fossimo rimasti così, distesi l’uno accanto all’altra quasi senza osare guardarci. Con la coda dell’occhio, come la nonna non voleva che guardassi, vedevo il suo orecchio ambrato coperto da una delicata peluria, come una conchiglia che avrei voluto avvicinare al mio orecchio, per ascoltarne il mare. E per questo gli dissi tante cose. A voce bassa, come se parlassi solo per me”

Eccomi qui, ora, davanti a questo bicchiere così verde, con il cuore che mi pesa. Sarà vero che la vita prende l’abbrivio da scene come quella? Sarà vero che da bambini viviamo la vita tutt’intera, d’un sorso, per poi ripeterci stupidamente, ciecamente, senz’alcun senso?

“Ricordo di un’isola” di Ana Maria Matute, edizione Fazi.

Sussurri tra le pagine per The BookAvisor.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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