Sussurri tra le pagine

“Celestino prima dell’alba” di Reinaldo Arenas: recensione libro

Reinaldo Arenas combatté, attraverso le sue opere, contro l’oppressione dei regimi cubani per gran parte della sua vita. Nel 1973 venne incarcerato a causa della sua omosessualità apertamente dichiarata, e durante gli anni della detenzione, fu lungamente torturato, tentò il suicidio e solo grazie a qualche falso turista riuscì a far uscire alcune sue opere dal carcere. Di “Celestino prima dell’alba’’ circolavano, già da anni, diverse edizioni clandestine, contenenti refusi e distorsioni, quando l’autore decise di realizzarne una versione definitiva. La sua pubblicazione, però, dopo la prima esaurita in tempi brevissimi, non fu mai più autorizzata dal governo cubano, e a seguito dell’incarcerazione, tutti i lavori dell’autore furono messi al bando.
 
Nelle opere di Arenas è udibile il grido di chi conobbe i muri dell’oppressione, così come è palpabile la furia di chi lottò a favore dei diritti civili ottenendo troppo poco. Della sua produzione, sfortunatamente
Soldati ribelli cubani nell’atrio dell’Habana Hilton (1959, Lester Cole/Corbis, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

poco nota in Italia, “Celestino prima dell’alba” rappresenta il principio, l’inizio di tutto, l’infanzia del narratore, ma anche una costruzione magica di ciò che, nella realtà storica, avrebbe condotto alla rivoluzione cubana, alla destituzione di Batista, e, poi, al regime castrista. Un’antistoria, dunque, perché, come spiega l’autore stesso: “Il romanzo è un atto di difesa della libertà e dell’immaginazione in un mondo contaminato dalla barbarie, dalla persecuzione e dall’ignoranza.”

 
Il narratore bambino, rivolgendosi a nessuno e a chiunque abbia voglia di ascoltarlo, ricorre ad un linguaggio rarefatto, trascende la realtà per riprodurre l’efferatezza di un mondo guasto in uno più ridotto: una casa, popolata più da morti che da vivi, dove il velo cade e i defunti camminano con chi crede di esistere ancora. Un luogo in cui una madre muore una, due o piú milioni di volte, perché le ferite non rimarginano e l’acqua inghiotte ogni malinconia, dove le croci servono ai sogni tranquilli, ma in fondo, sono solo legna da ardere quando si è ormai desensibilizzati alla morte. Un posto in cui l’ovvio decade, e c’è da chiedersi se il becco degli uccelli non siano in fondo solo mani, e se Celestino non sia per davvero “frocio” e allora valga la pena di annegarsi, ancora, nel pozzo. “«È una cosa da froci» ha detto mia madre quando si è accorta dello scrivicchiare di Celestino. E quella è stata la prima volta che si è buttata nel pozzo. «Preferisco morire piuttosto che avere un figlio così!». E nel pozzo è salito il livello dell’acqua.”
 
Una grande metafora da cui prende forma una madre (patria) che si ama dolorosamente, da salvare, ma
Reinaldo Arenas

solo a patto di lasciar morire una parte di sé stessi. Una mamma che nutre e quasi muore per i suoi figli, che chiede rispetto, pretende sacrificio, ferisce e lascia esanimi. Con lei, è possibile solo un legame indissolubile e sanguigno, teso sotto il peso della casa (Cuba) malmessa, cadente, ormai priva del calore di un focolare. Uno spazio chiuso di cui tutti sanno, eppure ognuno rifiuta di entrarvi, così orrendo eppure tanto amato, da provocare lacerazioni solo al pensiero di vederlo crollare sotto i colpi inferti da un nonno (dittatore) che impone regole crudeli punendone ogni libera espressione. Un tiranno che trova i suoi sostenitori incarnati in una moglie, la quale, agirà, in realtà, più per abitudine ed ignoranza, che per vera devozione. Infine, c’è Celestino, che salva sé stesso dalle fiamme tirando fuori le lacrime e lasciandole incise sui tronchi nella forma di una lunga poesia. Un peccato, un orrore, per una società che non ha spazio per nulla se non per la concretezza, dove persino gli esseri che popolano la madre terra finiscono per conoscere la ferocia. “Dando un urlo a bassa voce, che nessuno (nemmeno io) ha sentito, me ne sono andato di corsa di nuovo al pozzo, e ho riempito sempre di corsa i secchi, mentre mi dicevo: «E Celestino, dove si sarà cacciato?»… E visto che non potevo trattenermi: mi sono affacciato al pozzo. E là ci siamo visti: tutti e due stavamo tremando, con l’acqua al collo, e sorridevamo allo stesso tempo per dimostrarci che non avevamo affatto paura.”

 
Il narratore sarà il cugino del pazzo, dello strano, della femminuccia, o forse sarà un altro volto dello stesso Celestino, quello stupido, che non deve nascondersi nella nebbia della notte. Celestino rappresenta quindi la realtà, la natura cosciente dell’io narrante, mentre quest’ultimo incarna la denuncia al popolo cubano che sogna senza dormire, che vede ma non guarda, che sente i ragni camminare sul tetto, eppure, forse, finge ancora di averli immaginati. Celestino sarà incapace di risvegliare sé stesso ed il narratore dall’incubo, così si affiderà al buio, l’unico, che consente di camminare senza vergogna. Dunque resiste, ad ogni costo, ed anche di fonte alla sua poesia bruciata, penserà solo ai semi che ha piantato, perché in fondo per vedere, bisognerebbe prima imparare a guardare.
“- Non resta nessun albero in piedi. Cosa facciamo adesso? Il sole ci brucia e tu non puoi continuare a scrivere la poesia.
– Non ti preoccupare; che ne ho già piantati moltissimi e tra poco saranno grandi così.
– Spengo la luce?
– Sì, ma accendila prima.”
 
Una Storia lacerante che si sublima nella prosa di Arenas, che è soprattutto poesia, magica ed incredibilmente potente. Un impianto fiabesco in funzione allegorica e simbolica, che con le dovute differenza, mi ha ricordato la letteratura calviniana, ma con un’impronta decisamente più onirica. Un romanzo che richiede concentrazione e spirito di adattamento per una fantasia che sembra portare lontano mentre rimesta nel torbido di una realtà che ha perso ogni incanto abbracciando l’ostracismo. Celestino, difatti, è il figlio delle dittature, che una dopo l’altra, cancellano sogni e fantasie, tese ad un realismo che non ammette rime. Per contrapposizione, quindi, Arenas, creerà un racconto senza prosa, una poesia, ma non in versi, dove l’unica realtà, è che anche lì, si muore di tristezza. “Adesso è meglio che lasci riposare la tua immaginazione perché, quando smetterai di sognare e dormirai di più, ti lasceranno in pace. Non pensare, oppure pensa di meno: Celestino è l’unico ancora vivo e noi dobbiamo proteggerlo.”
 
“Celestino prima dell’alba” è un libro poliedrico, che sottoposto a sguardi diversi, si presta a differenti interpretazioni. La prosa appare talvolta abbacinante e furiosa, con le sue parole febbrilmente ripetute. Chiarissime, d’altronde, alcune immagini ed i relativi riferimenti storico/politici, come il castello di Terra Rossa costruito dai due bambini, ai quali, verrà poi, negato l’accesso. Lo stupore, la rabbia, la delusione dei giovani protagonisti, saranno le stesse che probabilmente condussero Arenas alla disperazione, dal momento in cui si rese conto di essere diventato un reietto, per il governo che egli stesso aveva sostenuto lottando. “Le sentinelle ci fermano con le loro grandi spade e ci urlano: <<Chi va là>>. <<Ma che scemi>> dico io <<non vedete che siamo quelli che hanno creato il castello e che hanno creato anche voi?>>. Però ci hanno risposto allo stesso modo, come avevano già fatto: urlando <<Fuori di qui!>> e con un tono così serio e puntandoci le spade al petto, che non abbiamo avuto il coraggio di dire altro.” 
 
Lo sforzo maggiore che Arenas richiede al lettore, è appunto quella di orientarsi attraverso una prosa che può quasi apparire allucinata, consegnandolo, inerme, al tentativo di dipanare la matassa di eventi che assumono sostanza irreale. Per mettere ordine in questa confusa, meravigliosa e sapiente fantasia, è necessario, quindi, cercare di immedesimarsi in un autore che visse gran parte della sua esistenza senza conoscere libertà alcuna, prima per la feroce dittatura batista, poi, vittima della persecuzione di un governo in cui aveva riposto ogni speranza. L’assenza di qualsiasi fede, le aspettative tradite, la fiducia mal riposta e la mancanza di lealtà, persino di chi, per ragioni di sangue, dovrebbe prima di tutto proteggere, saranno, infatti, temi ricorrenti in tutta l’opera. Un’opera che non può avere soltanto un finale ed il cui svolgimento sarà costantemente interrotto da più eserghi, quasi a segnalare che non vi è mai un solo inizio. 
 
Quanto è difficile spiegare Celestino, quanto è difficile consigliare di perdersi in questa lunga melodia, un passo dopo l’altro, al suono della musica che Arenas traccia tra le righe. Durante la lettura ho scritto appunti confusi e forse questa mia recensione lo è altrettanto. Siate clementi, perché questa storia si aggrappa al cuore ed è difficile trovare le parole giuste per descriverne l’essenza. “Celestino prima dell’alba’’ è come un mare che conduce lontano, incanta con il suo ritmo e la sua poesia, produce un suono unico ed irripetibile, talvolta spaventa, inghiotte e attira a sé, ma non lascia annegare, neanche quando sarà Celestino stesso a farlo.
“- Perché non ci impicchiamo anche noi?
– Lo faremo domani.
– No. È meglio farlo adesso.
– No. Domani è meglio.
– Hai la faccia piena d’acqua.
– È che sto piangendo.”
 
Questo libro mi era stato consigliato dallo staff dell’editore Mar dei Sargassi ed in particolare, da Flavia Fedele, al salone del libro di Napoli. Le parole di un bambino che bruciano. Le lacrime che cadono. Il dolore del silenzio. Il senso di oppressione. Il figlio del disagio. La poesia, che non morirà mai. Gli occhi lucidi, Flavia, ora li comprendo. Grazie.

– Ti fa molto male quell’ascia nella testa? 

‐ Quale ascia nella testa? – ha detto lui. 

E abbiamo iniziato parlare come eravamo abituati: senza dire nemmeno una parola.

“Celestino prima dell’alba” di Reinaldo Arenas, edizione Mar dei Sargassi.

Sussurri tra le pagine per The BookAvisor.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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