Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka: recensione libro
La storia siamo noi. Al di là degli accadimenti mondiali decisi da chi è al comando, la storia raccontata dal basso è spesso quella più scioccante, sempre quella più vera.
Attraverso una serie di articoli proverò a raccontare un punto di vista, uno sguardo. Perché leggere porta a pensare e pensare porta a ragionare. Così accade che le parole escano dalle pagine e diventino strumento per di osservare, valutare, capire.
Libri, fotografie, oggetti, ricordi. Collegamenti mentali che mi portano da un libro a un altro, che vanno a formare un filo, una visione di cosa è – per me – la lettura.
La libertà è come l’aria. Spesso ci si accorge di quanto vale solo quando viene a mancare. Piero Calamandrei
Primo libro: venivamo tutte per mare di Julie Otsuka
In questo libro edito in italia da Bollati Boringhieri con la traduzione di Silvia Pareschi, Julie Otsuka racconta una storia che, sebbene ignorata da molti, ha segnato generazioni di persone. Venivamo tutte per mare descrive il viaggio delle migliaia di giovani donne giapponesi – le cosiddette “spose in fotografia” che giunsero in America all’inizio del Novecento.
Il noi usato da Otsuka
“Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte. Alcune di noi erano cresciute solo a pappa di riso e avevano le gambe un po’ storte, e alcune di noi avevano appena quattordici anni ed erano ancora bambine. Alcune di noi venivano dalla città e portavano abiti cittadini all’ultima moda, ma molte di più venivano dalla campagna, e sulla nave portavano gli stessi vecchi kimono che avevano portato per anni – indumenti sbiaditi smessi dalle nostre sorelle, rammendati e tinti più volte. Alcune di noi venivano dalle montagne e non avevano mai visto il mare, tranne che in fotografia, e alcune di noi erano figlie di pescatori che conoscevano il mare da sempre. Forse il mare ci aveva portato via un fratello, un padre o un fidanzato, o forse un triste mattino una persona cara si era buttata in acqua e si era allontanata a nuoto, e adesso anche per noi era arrivato il momento di voltare pagina”.
Il “noi” scelto da Otsuka crea un’ empatia istantanea, ma è l’elenco di dettagli con cui vengono descritte queste donne che diventa catalogo di vite, inventario di anime.
Fin dalla prima pagina siamo tutte loro, siamo ognuna di loro.
Il lunghissimo e scomodo viaggio è l’ultimo frammento di vita giapponese. Attesa, paura, curiosità, speranza: sentimenti contrastanti si alternano e convivono in ognuna di loro. A legarle indissolubilmente la necessità e il desiderio di una vita migliore. L’eco di Furore di Steinbeck, udibile in ogni storia di migrazione, è per me presente forte e chiaro anche in questa, soprattutto quando, sbarcate a San Francisco, le donne trovano una condizione ben diversa da ciò che era stato promesso loro.
Giorno dopo giorno l’America entra nelle le loro vite. Abitudini, oggetti, usanze e parole si affiancano prima e siin pagina questa storia raccontata dal basso si intreccia con la storia decisa dall’alto. Sono anni di guerra, di difficoltà e fatica. Dopo l’attacco di Pearl Harbour gli Stati Uniti guidati da Roosvelt decretano che tutti i residenti di origine giapponese, anche se nati in territorio americano, dovranno essere deportati e rinchiusi nei campi chiamati “campi di reinsediamento del periodo di guerra”.
L’ordine esecutivo era il numero 9066, la data, il 19 febbraio 1942.
La presenza giapponese inizia a scomparire dalla vita quotidiana. Da un giorno all’altro tutto ciò che era stato conquistato, assimimilato, acquisito deve essere abbandonato.
Una valigia, una soltanto, nella quale stipare la propria vita.
Venivamo tutte per mare è un libro meraviglioso.
Come in altre situazioni storiche differenti da questa nello spazio e nel tempo, gli uomini si spostano, migrano, sperano, soffrono. Gli uomini abusano, rinchiudono, odiano.
Quanta debolezza in alcuni di loro. Quanta forza in altri.
Julie Otsuka
Venivamo tutte per mare
Bollati Boringhieri, 2011