Disìo”, di Silvana Grasso. Uno spietato atto d’accusa, una penna maestosa.
Disìo, di Silvana Grasso, è un atto d'accusa contro la corruzione del potere.
Disìo, di Silvana Grasso, è un’opera che andrebbe riletta periodicamente, per riempire il cuore quanto per destare la testa. E ci conferma, senza tema di smentita, che la penna di Silvana Grasso è letteratura vera.
Il doppio battito di Disìo lo rende un romanzo spietato e lirico al tempo stesso, tratteggiando una Sicilia immobile e immutabile, stuprata da un potere che, mentre le straccia le vesti della dignità, esponendola nuda al mondo, la riveste di un moralismo che diventa corazza e muro di cinta.
Un atto d’accusa che mette sul banco degli imputati un potere atavico e famelico che si nutre di quella corruzione e quell’immoralità rigorosamente in doppio petto, sedute ai tavoli che contano, dietro un’impeccabile facciata di rispettabilità.
In Disìo, Silvana Grasso denuncia il volto marcio della corruzione e del potere in doppiopetto.
E’ contro questo muro di ipocrisia, perpetuato dal silenzio, che si trova suo malgrado a combattere, spinta da un legame di sangue, di amore e di odio, Memi Santelia, la giovane psichiatra che decide di lasciare Milano per tornare in Sicilia. Sarà la morte della madre l’episodio scatenante che la induce a consegnarsi inerme al suo passato, sottoponendosi a un processo quasi catartico che la viola come le mani rapaci di Chiaramonte, la brutalizza con le trame occulte del malcostume politico, la soffoca nelle spire di un Male che controlla e dirige.
“Invade le zolle della tua carne, incandescente ancora, la tua vita che non ha guerrieri armati a difenderla, la tua vita che più non c’è nell’oblio d’una secca vena. C’è, madre, sulla tua guancia orfana di luce, un ignaro sussulto che ancora sconza lo zigomo, pur se impercettibile è il tremulizio, quello d’un biancospino che sventolia da una balconata di tufo” (Da Disìo).
Il lirismo struggente della prima parte, quando, al capezzale della madre, ricorda la sua terra di papaveri zingari nella quale nacque indesiderata, lascia il posto a una seconda parte introdotta da una cesura che si fa ponte, man mano che Memi si riappropria della sua identità, ricordando l’anaffettività della madre, la violenza subita, lo scempio di un corpo che rigurgita in nevrosi i suoi no. In quella Sicilia che affattura come canto di sirena, e dalla quale ha preso le distanze mutando nome e accento, ora Memi si addentra con passo incerto, in un percorso di avvicinamento che l’attrae e la respinge, come la falena sedotta dalla fiamma fatale.
Gli invisi capelli rossodiavuli sono ora sciolti sulle spalle, quando si siederà al cospetto del Male, facendosi pedina di un copione che assolve e purifica, sottraendosi, forse solo per un momento, a quella seduzione del niente che è diventata tratto distintivo della sua terra. Ora Memi si consegna per sempre alle sue viscere, che forse si faranno finalmente utero di madre.
IL VINO
Questa lettura si sposa bene con un buon bicchiere di Etna Rosso DOC, vino complesso e di gran carattere, come la penna della scrittrice e come il suo territorio di produzione, di cui è una delle massime espressioni enologiche.