Generalmente quando viaggio in un Paese straniero una delle cose che mi piace fare è entrare in un supermercato. Perché a mio personalissimo avviso i supermercati sono degli importanti indicatori che aiutano in parte a capire la struttura e il funzionamento della società in cui ci si trova. La mia osservazione parte di solito dalla varietà dei prodotti esposti, fino ad arrivare al prezzo (ad esempio lo stesso shampoo della marca X può costare 3 euro in Italia e 5 in Portogallo). Insomma, i supermercati sono una sorta di punto di riferimento per capire quali sono i consumi del Paese visitato.
Negli ultimi anni, tuttavia, le differenze tra i vari Paesi si sono drasticamente ridotte: il sistema capitalista e consumista ha infatti appiattito l’offerta, e oggi è praticamente possibile trovare gli stessi identici prodotti nella maggior parte dei Paesi del mondo. Ma c’è anche un altro aspetto che mi ha sempre incuriosito: osservare cosa compra la gente quando va al supermercato. E quando vedo carrelli strapieni di spesa non posso fare a meno di pormi una domanda: abbiamo davvero bisogno di tutte quelle cose? Quando rimasi due mesi a Cuba, ad esempio, mi resi conto che in realtà abbiamo strettamente bisogno di circa un decimo di tutto ciò che generalmente compriamo.
Ma ai miei ragionamenti mancava un pezzo, e la lettura di Manodopera di Diamela Eltit ha completato il puzzle delle mie riflessioni. Perché il romanzo dell’autrice cilena osserva il fenomeno consumistico dalla parte di chi lo subisce, ovvero di coloro che sono le semplici rotelle di ingranaggi che non possono mai fermarsi, che devono girare senza sosta per ore, affinché il sistema continui a essere in funzione: i lavoratori, coloro che permettono al supermercato di funzionare.
Ed è sorprendente il ritratto disegnato da Diamela Eltit, che nella prima parte del romanzo tratteggia il logorio del dipendente, sfruttato dai datori di lavoro, consumato dai clienti, schiavizzato dalle merci, che devono essere sistemate, controllate, ma soprattutto vendute. Perché vendere è l’obiettivo, vendere è il verbo, ma declinato all’imperativo: nessuno può sottrarsi dagli acquisti, tutti devono essere contagiati dalla mania di avere tutto, soprattutto ciò che è superfluo, ma che viene spacciato come necessario.
E se nella prima parte di Manodopera si prova sulla propria pelle la furia cieca dei clienti che invadono il supermercato come fossero cavallette, nella seconda parte si entra in una casa in cui convivono alcuni dipendenti, logorati dal lavoro, vessati dai capi, fiaccati dalla paura di sbagliare una mossa e di subire le ire di chi comanda, sempre in equilibrio su quel sottilissimo filo dal quale non si può cadere se si vuole tenere lontano lo spettro del licenziamento. Perché al di là delle mura del supermercato è lunga la fila di chi è pronto a farsi annientare per riuscire a strappare un contratto per avere un lavoro mal pagato che però significa sostentamento, vita.
“Poverina. Era proprio così. Stava male. Non poteva nemmeno pisciare. Specialmente lei che stava sempre inchiodata alla cassa. Perché se chiedevamo un permesso per fare una commissione, se uscivamo a prendere una boccata d’aria in giardino, se ci appoggiavamo agli scaffali, se ingurgitavamo un dolcetto, se andavamo in bagno a cagare, se ci veniva fame e prendevamo uno yogurt scaduto dal banco frigo, se ci mostravamo un po’ sottotono, ci licenziavano su due piedi. Le cose stavano cosi”.
Manodopera di Diamela Eltit è un libro da leggere. Bisogna leggerlo perché è un romanzo che esorta a riflettere su aspetti che sono entrati a far parte talmente tanto della nostra routine da essere diventati abituali, normali, nonostante a volte ci troviamo davanti delle vere e proprie storture create dalla società capitalista e consumista, come ad esempio l’impietoso sfruttamento dei lavoratori e la corsa tossica e ossessiva che ci spinge ad acquistare freneticamente tutto ciò che passa sotto al nostro naso.
“Manodopera” di Diamela Eltit, edizioni Polidoro Editore. Libri in Pillole.