L’‘unica notte che abbiamo non è un libro di facile lettura. Non lo è fin dalle prime pagine, perché a condurre la narrazione è una pluralità di voci, che camminano parallele, si mischiano, si sovrappongono, senza dare inizialmente delle coordinate che permettano al lettore di capire bene chi parla.
Poi, però, si comincia a entrare nel testo e a capire di più il meccanismo. È un’anziana signora il contenitore e il motore di quella pluralità di voci, perché è lei a raccontare a uno sconosciuto interlocutore la storia della sua famiglia e dei suoi componenti, che a loro volta parlano per riportare alla luce e tramandare ai posteri eventi e situazioni vissute. Ed è una storia fatta di abbandoni, violenze, separazioni, menomazioni, malinconia.
“Quando si diventa frequentatori abituali di un bar, quando un bar è stato scelto come propria dimora, si riceve infatti la cittadinanza di una nazione che è allo stesso tempo il proprio paese d’appartenenza e la propria terra d’esilio e, in quanto cittadini di questa particolare nazione, si viene riconosciuti dagli altri avventori – sei uno dei nostri, ti dicono con un cenno del capo quando alla tua ora entri nel bar -, ma tale riconoscimento non implica doveri e non genera attese negli altri frequentatori del bar, né tentativi di modificare il tuo modo d’essere, nei bar ti accettano per quello che sei, un rifugiato, un esiliato che come loro ha trovato la sua patria. Perché nei bar puoi essere loquace oppure non spiccicare una parola, stare al centro dell’attenzione o seminascosto in un angolo, nei bar va comunque bene come sei, nella mutevolezza degli umori, nella provvisorietà che ci contraddistingue, perché quella nei bar è una presenza dalla quale ci si può ritirare in ogni momento, anche a metà di una frase, senza fornire giustificazioni, senza che nessun storca il naso o si sorprenda, ci si può ritirare facendo semplicemente segno al cameriere ed estraendo il portafogli dalla tasca interna della giacca, perché ognuno sa che nei bar tutto è provvisorio, che tutto è appeso a un filo, è da un po’ che non si fa più vedere, diranno dopo qualche giorno e andranno avanti con le loro chiacchiere dimenticandosi subito di te, o tuttalpiù faranno un brindisi rivolgendo il bicchiere verso il tavolino vuoto all’angolo della piazzetta […]”.
Come detto al principio, L’unica notte che abbiamo non è un libro di facile lettura, ma la scrittura è a dir poco affascinante. Immaginate di avere sopra alla vostra testa una piscina piena di acqua. Immaginate di togliere il tappo dalla piscina per far scivolare via l’acqua sopra di voi. Esattamente così colpisce la scrittura di Paolo Miorandi: è travolgente, un flusso di parole che piovono addosso al lettore, che rimane lì incollato alla pagina assorbendo su di sé un fiume di frasi costruite con periodi lunghi, senza respiro, eleganti, avvolgenti.
“L’unica notte che abbiamo” di Paolo Miorandi, edizioni ExOrma. Libri in Pillole.