Il disagio imbalsama la spontaneità. Ti irrigidisci e ti senti fuori contesto. Anche i pensieri si fanno di marmo e ti metti sulla difensiva. Provi fastidio per tutto, luoghi e persone, nel momento in cui vorresti fuggire, essere da tutt’altra parte. Avverti un certa nausea nell’udire discorsi che faresti a meno di ascoltare. Eppure, per rispetto e per condizione sociale non puoi sottrarti a quel disagio perché se lo ripudiassi ti farebbe vivere da disertore.
In Nel nome della madre e del figlio di Besnik Mustafaj conosci una storia fatta di memoria e di silenzio. La compagna S. ha imparato presto a temere gli edifici del potere, a considerare certe porte chiuse un pericolo. Tutto ha inizio in un cortile, con una chiamata inattesa. Lei, giovane figlia del popolo di Albania, ignora il perché il Partito le abbia chiesto di realizzare un paio di scarpe, “tra le più belle mai viste”, per uno sconosciuto. Un lavoro che tante avrebbero potuto svolgere. Eppure, tra tutte le malissore, il Primo Segretario ha convocato una donna poco istruita, timorosa, che subito sente la vita incrinarsi. Da quel giorno, quelli sono per lei luoghi da evitare, stanze in cui si entra interi e si esce svuotati. Anche quando suo figlio diventerà ministro, continuerà a temerle più di ogni altra cosa. La donna per trent’anni ha custodito una storia con il fiato sospeso come se fosse in apnea. Ora tocca al figlio raccontarla. Le parole sono le sue, ma il battito che le muove viene da lontano.
Il libro presenta una narrazione lenta, poco spedita. Alcuni passaggi sono tirati sino allo stremo, cosa che infastidisce un po’. La scrittura è chiara specie quando entra nei ricordi che lo scrittore deve lasciare come eredità di un silenzio che ha ingoiato ciò che non avrebbe voluto.
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“Nel nome della madre e del figlio” di Besnik Mustafaj, edizioni Castelvecchi. Dream Book.