È brutta l’illusione. Ti fa salire in alto e poi si polverizza. Resti attaccato a qualcosa di evanescente, che ha la forma dei sogni, alimentando la speranza che tu possa ottenere ciò che desideri. L’illusione ti arpiona, con un colpo secco. Quando finisci nella sua seducente sfera diventi scemo di gioia. Una felicità che tieni a bada, nascosta, soffocata. Sei geloso dei pensieri generati dall’illusione. Pensi che le idee che metti in piedi possa rubarle qualcuno. Le accudisci.
In La gentile di Roberta Lepri entri in una storia in bilico tra amore e odio. Città di Castello, inizi del ’900. Ester è brutta, bassa, senza tette. A dirglielo è la madre che per lei nutre un forte astio. Come la guarda appena appena le si accende un fuoco perché Ester non le va bene in niente. La madre, nei suoi confronti, sfiata solo rabbia. La figlia per lei è solo uno scarto, la creatura venuta male. Tutti conoscono il segreto della famiglia di Ester, giudei convertiti. Ester era ebrea a partire dal nome e deve pregare in mezzo ai cristiani. È una gentile, non appartiene alla religione ebraica. In città arriva la ricca americana Alice Hallgarten, sposa del barone Leopoldo Franchetti. La nobildonna convince il marito a finanziare la costruzione di una scuola per i figli dei contadini. La storia di Alice si intreccia con quella di Ester, povera, senza istruzione e gentile. Poi, la foschia.
Il romanzo ha una forza incredibile. La storia è appassionante, si nutre di un innesto di diversi temi che rendono il racconto amabile. La scrittura non inciampa in nulla perché si regge su un impianto maturo di capacità narrativa e stilistica.
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