La superficialità è inaffidabile. Guasta la facciata e l’essenza della realtà. È una trappola che scatta per allontanare coloro che vogliono andare a fondo nelle questioni, specie quelle più complicate e in apparenza scontate. La superficialità racconta una storia sua. Nella sostanza, quella che intende far passare per l’unica possibile chi ha qualcosa da nascondere e, peggio, chi è impreparato a vedere le cose come stanno e come sono per davvero.
In Il vampiro di Vanchiglia di Donato Sergi hai a che fare con un’indagine particolare. Torino, 1884. Achille Sacchi, giovane giornalista, deve scrivere un articolo sulla figura di Giuseppe Turàt, un accademico le cui teorie sul crimine destano scalpore. Il quartiere di Vanchiglia è teatro di un tremendo delitto. La vittima è una bambina, segnata da tagli, da morsi e da due strani fori sul collo. I cittadini cadono nella paura del vampiro che compie altri omicidi e nefandezze, dovute ad una depravazione feroce, sulle piccole vittime. Quando tutto sembra perdersi nel nulla, Turàt risolve il caso. E Sacchi scriverà ogni cosa nel dettaglio affinché non venga insabbiata dalla superficialità e dall’inganno.
Il romanzo è una corsa sulle montagne russe tra suspense e curiosità, entrambe crescono catturando il lettore. La narrazione non solo è un giallo, ma è soprattutto la conoscenza dell’attività investigativa come documento su come la forte perizia intellettuale, professionale e umana, sia centrale nella risoluzione di un crimine. La scrittura è unica, curata. Parla la lingua di quel tempo con l’affaccio su l’eleganza di stile.
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“Il vampiro di Vanchiglia” di Donato Sergi, edizioni Ianieri. Dream Book.