Sussurri tra le pagine

“Pedro, in teoria” di Marcos Gonsalez: recensione libro

Privarsi del disagio, o, ad ogni modo, ridimensionarlo, questo é ciò a cui si sentono obbligati gli immigrati di seconda o terza generazione: gli eredi di un esodo che si tramanda tatuato addosso con il colore della pelle. Giovani cresciuti tra racconti di povertà, miseria e condanna, o piuttosto all’ombra di un silenzioso sacrificio che proietta buio su qualunque altro tipo di sofferenza. Effimera, inadeguata risulta quest’ultima, come se il suo peso potesse essere condizionato, misurato e proporzionato in base a ciò che un tempo fu. Ne derivano, così, uomini e donne costretti a tacere l’oppressione, ad ostentare sorrisi affettati, a riconoscersi in una fortuna che sentono propria solo in superfice.  
 
È proprio di questo debito di felicità che racconta Marcos Gonsalez nel suo esordio letterario “Pedro, in teoria”. Collocandosi a metà tra il saggio ed il memoir, l’autore partirà dai ricordi nascosti dietro i due volti di una fotografia sbiadita. Un’immagine che parla di corpi sconosciuti, di mani strette, di fughe da mondi lontani, di pregiudizi, di parole inutili e ricordi sfuggenti: la semplice fotografia di un uomo che abbraccia il suo bambino. “Il mondo si metterà tra voi. Padre e figlio, bambino e uomo. Ma per adesso, l’intervallo di una fotografia, siete un padre e un figlio che si abbracciano sorridenti e raccontano una storia diversa da quella di cui condividono il peso.”  
 
Parte tutto da una foto, dunque, da monologhi e reminiscenze di chi racconterà il proprio disagio rivolgendosi direttamente al lettore. Una storia vera, attuale, fatta di lingue sovrapposte che tolgono ad un bambino anche le parole per raccontare i propri sogni, di nomi sconosciuti o proibiti, di muri e intolleranze, di lacrime amare, infanzie sciupate, profumi marcati, storie inventate e parole cattive. Una confessione che non ammette edulcorazioni e che si riflette in una prosa diretta, limpida e talvolta agghiacciante, tanto da obbligare l’autore a parlare di “Questo ragazzino queer e grasso e povero e scuro del ghetto messicano” in terza persona, con il palese intento di prendere le distanze da un passato tormentato, di non superare l’argine oltre il quale insiste il gorgo dei ricordi che lentamente risucchiano. Si oscilla, allora, tra due protagonisti: il bambino bullizzato, infelice che, sopravvissuto solo in parte, si trasformerà nel Marcos attuale, ed il suo risultato finale: un adulto ferito ed insicuro. “Scrivo per il ragazzino dalla pelle scura. Per fare ammenda, fare pace, alleviare il suo dolore, per far sì che senta ancora la brezza sul viso. Scrivo per vivere di nuovo.”  
 
L’autore regala, così, una prospettiva differente da cui osservare l’immigrazione, non peggiore, ma

Marcos Gonsalez

ugualmente complessa. Consente di tendere l’orecchio verso l’urlo incompreso dei ragazzi “fortunati”, che con il silenzio, ripagano il sacrificio fatto da qualcun altro. Uomini e donne insoddisfatti, feriti, marchiati da una sfumatura e da un accento, ai quali si sommano un corpo e una sessualità, da sempre oggetto di estraneazione. Pregiudizi che si legano indissolubilmente alla morte e a chi silenziosamente la invoca, in una lotta costante, dolorosa, contro sé stessi, prima ancora che contro il resto del mondo.  Dunque questa lettera è indirizzata a due persone che dimorano in un’immagine, vale a dire che questa è una lettera a nessuno, e una lettera a nessuno è una lettera per chiunque. Per tutti quei chiunque che non riuscimmo mai a essere, tutti quei chiunque che ci furono negati, tutti quei chiunque che hanno urgenza di vivere ancora.”  
 
Tra congetture, pezzi di storia, estratti ed elaborati, Marcos Gonsalez traccerà i contorni di una nuova teoria: quella di Pedro.  

Ma, in fondo, chi è Pedro?   
Pedro è un uomo, è una donna, è un bambino, Pedro è il prodotto di una società che distingue, indica, classifica ed emargina. Pedro è il risultato di un giudizio infamante, della coscienza umana che si chiude, di uno sguardo indagatore che annienta tutto ciò in cui non riesce a specchiarsi. Pedro è il figlio dell’intolleranza. La somma di un mondo che ancora si ostina a ricercare diversità. Pedro è la coscienza di un paese che lentamente avvizzisce tradendo sogni e promesse di emancipazione e vita nuova.  Pedro è una causa: il mostro cui dare la colpa. “All’immaginazione, però, non vanno lasciati gli occhi di Pedro, arrossati dalle tempeste di polvere nei campi. Non si possono indovinare le ossa, i muscoli, la pelle, i piedi, il sangue, l’intero corpo dolente. In questa fantasia che è Pedro non si può negoziare l’oscurità nebulosa che ha dentro: i ricordi infelici, quanto sia insopportabile lasciar perdere, le traversate senza nome, la frammentazione di sé, il costante imbattersi nell’orrore mentre attraversa il continente.”  
 
Ma Pedro è anche una madre che fugge da un’isola lentamente vuotata, è una figlia che vi fa ritorno senza sentirsene mai parte, ed è un nipote che lotta per cancellarne ogni traccia dalla propria pelle. Sogni, promesse, aspettative e desideri coltivati, eppure, tre generazioni dopo, i Marcos/Pedro del mondo, cercheranno ancora la giusta via per l’integrazione. Vivere rinnegando sé stessi e le proprie origini, tacere provenienze e parentale, simulare una vita che non è la propria, diventa un esercizio necessario, logorante e doloroso, capace di spezzare l’individuo fino all’unica necessaria presa di coscienza: “Non voglio che a definirmi sia ancora la censura dell’identità”.  
 
”Pedro, in teoria” non è un libro in cui cercare poesia e neanche una ragione. É un libro di ricordi personali che si cuciono alle memorie di un mondo corrotto, che scava a fondo cercando le radici di una malattia, che in ogni luogo e tempo, parla solo la lingua della paura. Per usare le parole della sua traduttrice, Marina Finaldi, “Pedro, in teoria”, è “un libro di marginalità geografica e di concetto. Un libro di diversità imposte.”.
“Il 18 novembre 2013, Cruz Marcelino Velazquez Acevedo, un sedicenne di Tijuana in Messico, muore al confine. Non annega in un fosso, in un canale o nel Rio Grande come tanti migranti che tentano la traversata del confine con gli Stati Uniti. Neppure muore disidratato nel deserto del Texas o dell’Arizona o della California. In realtà, non prova a passare il confine per, come dicono tanti, “entrare illegalmente nel paese”. A San Ysidro, sul confine Messico-Stati Uniti, muore di overdose per aver assunto una quantità troppo elevata della metanfetamina liquida che ha cercato di contrabbandare.”  
 
Fu la polizia di confine a costringere il giovane a bere il liquido per confermare che non si trattasse di droga.  
 
Ma chi è Pedro?   
Cruz Marcelino Velazquez Acevedo era Pedro.

“Pedro, in teoria” di Marcos Gonsalez, edizione Mar dei Sargassi.

Sussurri tra le pagine per The BookAvisor.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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