Un libro tra le mani

“L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson, recensione: Un libro tra le mani

“Hill House, insana, se ne stava sullo sfondo delle sue colline racchiudendo dentro di sé l’oscurità;  era rimasta così per ottant’anni e avrebbe potuto restarci per altri ottanta. Dentro, le pareti erano ancora dritte, i mattoni ben connessi fra loro, i pavimenti erano solidi, le porte giudiziosamente chiuse. Il silenzio gravava perenne sul legno e sulle pietre di Hill House e qualunque cosa vagasse sin lì, vi andava da sola.”

La Jackson è maestra di un genere horror che horror non è.
È raffinato, elegante, implicito, fondato su un’inquietudine che risiede non nei fatti e negli accadimenti in sé, ma nella testa dei suoi personaggi.
Non c’è traccia di effetti splatter o dichiaratamente paurosi, la tensione è sottile e s’insinua gradualmente, generando soprattutto un’escalation dei tratti psicologici dei protagonisti.

Ciò che fa realmente paura è l’effetto della paura stessa su chi la prova.

Qui ci troviamo di fronte ad una ghost-story in stile “gotico ottocentesco”, ma attenzione, parliamo della Jackson, per cui non aspettatevi i fantasmi, non sarà mai così banale e scontata.
Gli ingredienti ci sono tutti, per carità, ma l’uso che ne fa l’autrice è assolutamente all’altezza della sua eleganza letteraria.
Ed eccola lì, Hill House, sontuosa casa dall’aspetto lugubre e malvagio, presumibilmente infestata, le cui simmetrie, i cui angoli e le cui pendenze sono impercettibilmente alterati, generando subito uno squilibrio fisico in chi vi entra, ovvero il dottor Montague (che vuole studiare le manifestazioni della casa) e i suoi assistenti, Eleanor (la vera protagonista), Theodora e Luke.

L’iniziale squilibrio “fisico”, si tramuta ben presto in smarrimento “mentale”, provocando negli abitanti della casa suggestioni tali da esasperare le loro personali angosce e tensioni private.

Hill House e Eleanor… Hill House è Eleanor

L'incubo di Hill House
L’incubo di Hill House

La Jackson riesce, con queste pagine travestite da horror, a parlarci di solitudine.
Una solitudine profonda e lacerante che fa più paura di una casa infestata.
Una solitudine che può anche far impazzire, e lo sa bene Eleanor.
Eleanor è il vero fulcro di tutto il romanzo, non la casa.
Il finale è emblematico e si presta a diverse interpretazioni, provocando nel lettore qualcosa che si avvicina molto alla confusione mentale che pervade tutto il racconto.

Questo, probabilmente, è il suo libro più famoso, anche per via delle trasposizioni cinematografiche, io ho preferito altro di suo, in primis il racconto “La lotteria” (assolutamente perfetto nel suo essere agghiacciante) e poi “Abbiamo sempre vissuto nel castello”, ma lei è sempre affascinante ed evocativa in un modo assolutamente unico e difficile da descrivere.

Le storie della Jackson non ti sconvolgono sul momento, ma ti s’insinuano lentamente dentro, in modo subdolo e, quando meno te lo aspetti, ci ripensi e senti come un brivido sulla schiena.
Come dice Stephen King, “lei non ha mai avuto bisogno di alzare la voce“.

Per chi non si aspetta il solito horror.

 

“L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson, Adelphi. Un libro tra le mani.

 

Antonella Russi

Nata a Taranto, classe '76. Lettrice per passione, da sempre.

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