Libri Illeggibili

Biblioteche incendiate, tragedie maledette e cani imprevedibili [foto]

Per il quinto appuntamento della nostra rubrica “i libri illeggibili” parleremo del peggior incubo di ogni bibliotecario: il fuoco. I roghi di libri e la distruzione delle biblioteche furono pratiche piuttosto comuni nel passato, causate spesso da guerre, censure o più semplicemente dalla necessità di cancellare informazioni e idee “pericolose”. Molti dei libri vittime di biblioclastia, sono ormai perduti, in quanto non ne esistono copie antecedenti gli incendi, motivo per cui, possiamo aggiungerne parecchi alla lista dei libri che, purtroppo, non leggeremo mai.

Il primo rogo documentato della storia risale al 213 a.C., in Cina, ad opera di Qin Shi Huang, con l’obiettivo di eliminare ogni traccia della tradizione che potesse costituire una minaccia al suo mandato imperiale. La pratica dei roghi durò fino al 206 a.C. e portò alla distruzione di quasi tutti gli antichi testi, insieme ad una violenta persecuzione contro gli intellettuali, 460 dei quali furono sepolti vivi. Quello di Qin Shi Huang viene oggi considerato simbolo ed esempio per tutti i roghi di libri dei secoli a venire. Nel romanzo “Auto da fè” di Elias Canetti (1935), il protagonista rimarrà così sconvolto dal rogo nazista da rivolgersi ai propri libri come a persone viventi, e con un duro monologo maledirà il primo rogo di libri della storia, Qin Shi Huang e la sua discendenza. Cosa contenessero i numerosi volumi, fulcro dell’antica cultura orientale, non lo sapremo mai esattamente, gran parte di essi, restano a tutt’oggi un mistero.

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“Uccidi gli studiosi e brucia i libri” pittura cinese anonima del XVIII secolo
(2014, Sohu, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Giungiamo al I secolo d.C. per la dipartita degli “Annales” di Cremuzio Cordo. Lo storico romano raccolse la storia di Roma anno per anno nella sua opera, dando particolare risalto all’ormai tramontato regime repubblicano, con tanto di lode ai traditori Bruto e Cassio. Fu per questo accusato di “crimen maiestatis”, che Tacito definì “un crimine nuovo e mai sentito”. Cremuzio Cordo si difese con un discorso a suo favore sostenendo che “La posterità rende a ciascuno il suo onore; e se mi incombe una condanna, non mancherà chi si ricorderà non solo di Bruto e Cassio, ma anche di me.”, e così fu. Il Senato, infatti, decretò che tutta l’opera fosse bruciata, ed il suo autore, oltraggiato, scelse il suicidio, lasciandosi morire di fame. Ad oggi, degli “Annales”, restano solo pochi frammenti. Siamo di fronte al primo caso documentato di condanna per “reato d’opinione”, ma non certo al primo rogo di libri per mano dei romani. Già Augusto, fece bruciare tutte le opere di storia non gradite e seguiranno l’esempio, poi, Caligola, che ridusse in cenere i versi di Omero e Virgilio, e Diocleziano che ordinò che venissero bruciati tutti i libri cristiani. Insomma, il fuoco divenne presto una soluzione particolarmente in voga nell’impero.

Doppio incendio, invece, per i “Libri Sibillini” bruciati prima nell’83 a.C., ricostruiti e di nuovo bruciati nel 408 per evitare che finissero nelle mani dei Visigoti. Eppure, secondo la leggenda, i libri conobbero fin da subito la furia del fuoco, poiché la Sibilla Cumana avrebbe raccolto i responsi oracolari in nove libri per offrirli al re romano Tarquinio il Superbo, il quale, però, considerò il prezzo di questi ultimi troppo esoso. La sibilla, allora, bruciò tre dei nove libri ed offrì i sei rimanenti al re, allo stesso prezzo. Questi rifiutò ancora, quindi la sibilla ne bruciò altri tre. Riformulò la proposta, e Tarquinio cedette, accettando i tre volumi superstiti al prezzo dei nove iniziali. Mai contraddire una donna… che tu sia re o meno. I tre testi furono conservati nel tempio di Giove Capitolino, sul Campidoglio, affidati ad un collegio di sacerdoti, e per nove secoli vennero considerati l’unico riferimento da consultare nel momento del bisogno, durante ogni crisi politica, almeno fino all’arrivo del Visigoti. Purtroppo, anche in questo caso, a noi sono giunti solo alcuni frammenti di pochi versi, un gran peccato, perché, di questi tempi, la dritta di un oracolo, sarebbe stata veramente molto utile.

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La Sibilla Cumana di Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina
(2006, Wikipedia, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Ma la più famosa opera di distruzione fu, molto probabilmente, quella che riguardò la Biblioteca di Alessandria ad opera del generale Amr ibn al-As, comandante delle truppe arabe che nel 642 conquistarono l’Egitto. C’è da dire che la povera biblioteca non avesse goduto di gran fortuna, neanche in passato, infatti, era già stata distrutta dall’incendio del 48 a.C. ad opera di Giulio Cesare, poi nell’attacco di Aureliano intorno al 270 e ancora con il decreto di Teodosio I del 391. L’intenzione dei conquistatori arabi, fu però, proprio quella di bruciare ogni libro in essa contenuto per ordine del califfo Omar, il quale sostenne che “In quei libri o ci sono cose già presenti nel Corano, o ci sono cose che del Corano non fanno parte: se sono presenti nel Corano sono inutili, se non sono presenti allora sono dannose e vanno distrutte”. Dunque, un incendio dopo l’altro, della biblioteca di Alessandria non resta ormai più nulla, basti solo pensare che già dopo il primo incendio, Aulo Gellio, scrittore e giurista romano, parlò di 700mila volumi bruciati di cui non esistono copie. Un gran bel disastro.

Dal 787, invece, con il secondo concilio di Nicea, fu stilata una lista di libri ritenuti eretici, che dovessero essere obbligatoriamente consegnati al vescovo e condannati al rogo. Non si trattò di una pratica del tutto estranea alla Chiesa, considerando che già San Paolo (prima metà del I sec.), come riportato negli Atti degli Apostoli, spinse i nuovi fedeli al primo degli autodafè: “Portarono i loro libri assieme e li arsero in presenza di tutti. Così la parola di Dio cresceva potentemente e si rafforzava”. Non abbiamo dati certi circa la quantità di libri perduti per sempre a causa della censura ecclesiastica.

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Raffigurazione del concilio di Nicea II di Costantino Manasse
(2008, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

Quasi mezzo milione di volumi finirono in cenere, poi, nel 1258 a Baghdad, quando la città venne presa, saccheggiata e devastata dai Mongoli. La celeberrima biblioteca abbaside Bayt al-Hikma, rimasta per secoli una delle opere più alte realizzate dall’ingegno umano in ambito islamico, sopravvisse ad incendi e guerre civile, ma cadde sotto i colpi dei discendenti di Gengis Khan. Il numero di volumi perduti, anche in questo caso, è, ad oggi, difficilmente quantificabile.

Ardente, già prima di essere dato alle fiamme, fu il libro “I modi” conosciuto anche come “Le sedici posizioni”. Si tratta di un famoso libro erotico del Rinascimento italiano, contenente sedici incisioni che rappresentano in modo esplicito posizioni sessuali. L’edizione originale, pubblicata nel 1524, venne realizzata dall’incisore Marcantonio Raimondi, il quale riprese una serie di dipinti erotici di Giulio Romano. Presto, però, l’autore fu catturato ed i libri radunati e bruciati per ordine di Papa Clemente VII. Fu il poeta Pietro Aretino, in seguito, a comporre 16 sonetti, altrettanto espliciti, per accompagnare i dipinti/incisioni. “I Modi” venne, quindi, pubblicato nuovamente nel 1527 con poemi e dipinti; ma, ancora una volta, la censura pontificia s’impadronì di tutte le copie che riuscì a trovare. Di questa edizione non sopravvivono altro che pochi frammenti.

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Pagina tratta da un’edizione pirata de “I modi” con i sonetti dell’Aretino
(2019, Sailko, CC BY 3.0, Wikimedia Commons)

A dare alle fiamme gran parte dei manoscritti Maya e Aztechi, ci pensò, invece, l’Inquisizione messicana nel 1562. In particolare Diego de Landa, un vescovo cattolico spagnolo, che raccolse quante più informazioni possibili sulla cultura precolombiana, per poi distruggerne interamente il patrimonio scritto. La classe elitaria maya (tra cui scribi donne) diede vita ad un complesso sistema di scrittura geroglifica, mediante il quale fu riportata la storia e le conoscenze maya in numerosi libri dipinti su una stoffa di corteccia mesoamericana. Ad oggi ne sopravvivono solo tre esemplari, la cui decifrazione è stata molto lunga e complessa. Gran parte degli elementi hanno a che fare con la matematica, l’astronomia ed il celebre calendario. I Maya, infatti, svilupparono un sistema altamente complesso di calendari rituali, la cui interpretazione non è ancora del tutto certa, ed il mistero non fa che alimentare la fantasia di chi ritiene che custodiscano la data esatta della fine del mondo. Uno dei libri Maya a noi giunti (il Codice di Dresda), annuncia tra i 20 e i 40 anni di diluvi scatenati da una dea, ai quali seguirà la fatidica fine. Secondo alcuni scrittori New Age degli anni 70, anche in base a studi condotti su iscrizioni incise su pietra, ciò sarebbe dovuto accadere nel 2012. Tuttavia, in quell’anno, un gruppo di archeologi americani, ritrovarono in Guatemala un’abitazione, probabilmente appartenuta ad uno scriba maya, sui cui muri sono presenti centinaia di geroglifici e pitture che sembrano descrivere varie ciclicità astronomiche. I glifi, decifrati con il codice di Dresda, estendono il calendario, che non terminerebbe più con il 21 dicembre 2012, ma dovrà essere aggiornato aggiungendo altri 7000 anni. Sembra, quindi, che almeno per il momento, l’abbiamo scampata.

Opere di distruzione, per mezzo del fuoco, si sono perpetrare fino agli anni recenti, ma fortunatamente non tutte hanno causato la totale scomparsa dei libri dati alle fiamme, poichè, di essi, si conservavano già preziose copie. Un ultimo esempio di opera perduta per sempre, può essere l’“enciclopedia Yongle”, voluta dall’imperatore cinese Yongle nel 1403. Un progetto enorme: per realizzarlo vi lavorarono 2mila studiosi che raccontarono la storia cinese dai tempi antichi fino agli inizi della dinastia Ming. Vennero fuori più di 11mila volumi su argomenti che spaziavano dall’agricoltura all’arte, dalla teologia, alle scienze naturali, ma non mancarono argomenti di astronomia, geologia, letteratura, medicina e tecnologia. Fu considerata l’enciclopedia generalista più grande mai scritta per ben 600 anni. Purtroppo, gran parte dei volumi bruciarono nella rivolta popolare dei Boxer nel 1901 ed a noi è giunto solo il 3% dell’opera.

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Pagine dell'”Enciclopedia Yongle” in mostra alla biblioteca nazionale cinese
(2014, LW Yung, CC BY 2.0, Wikimedia Commons)

È chiaro, dunque, che è sempre stata la mano dell’uomo a far più danni. I roghi dolosi sono sempre stati i mezzi più efficaci per riuscire nell’impresa di cancellare volumi dalla storia, eppure ci sono stati casi in cui, il fato o la cattiva sorte, hanno giocato veramente un brutto scherzo agli autori, provocando l’irrimediabile perdita di opere mai copiate o, di appunti mai trascritti.

Un esempio lampante è quello del Globe Theater di Londra, che, nel 1613, fu distrutto da un incendio durante uno spettacolo. Il teatro fu fondato dalla compagnia di William Shakespeare nel 1599 (all’epoca il grande drammaturgo aveva già scritto alcuni dei suoi più grandi capolavori), ed il 29 giugno del 1613, sul palcoscenico andò in scena l’Enrico VIII. Qualcosa, però, non andò per il verso giusto ed il cannone di scena, incendiò per errore il tetto di paglia e le travi in legno del sipario. Fortunatamente non ci furono vittime, fatta eccezione per i pantaloni di un uomo che, a quanto pare, andarono a fuoco e furono spenti grazie ad un boccale di birra. Tuttavia, il teatro andò completamente distrutto. In esso erano conservati tutti i testi originali messi in scena fino a qual momento dal bardo, ma di cui fortunatamente erano già state realizzate altrettante copie… fatta eccezione per una sola “commedia perduta”, rappresentata solo due volte prima dell’incendio. Parliamo del “Cardenio” in cui il protagonista era ispirato ad uno dei personaggi del Don Chisciotte di Cervantes. Dopo l’incendio, della commedia in questione, non se ne seppe più nulla, finchè l’editore e drammaturgo Lewis Theobald non mise in scena, nel 1727, la commedia “Doppio inganno”. Theobald confessò che, questa, si basava su tre manoscritti di un’opera anonima di Shakespeare, che furono, successivamente, identificati dai critici, come i libri che componevano l’ormai perduto “The History of Cardenio”. I contemporanei di Theobald dubitarono dell’origine shakespeariana della commedia, tanto che alcuni lo accusarono di falso. La prova del legame di Shakespeare con l’adattamento teatrale della storia di Cardenio, arrivò quando venne alla luce l’iscrizione di un’opera intitolata “The History of Cardenio”, nei registri dei librai e degli stampatori londinesi, riportata dall’editore londinese Humphrey Moseley nel 1653, il quale, ne attribuiva la paternità a William Shakespeare. Theobald non poteva essere a conoscenza della registrazione, poiché fu scoperta molto tempo dopo la sua morte, e ad oggi sembra esserci accordo tra i critici moderni sul fatto che “Doppio inganno” non fosse un falso, ma una rappresentazione basata su una commedia perduta presumibilmente ricollegabile a William Shakespeare. Se un originale “Cardenio” sia mai esistito, se sia stato effettivamente scritto da Shakespeare, se la copia originale sia realmente andata distrutta nell’incendio, purtroppo non possiamo saperlo con certezza. È probabile che, ancora una volta, il fuoco ci abbia derubati di un’opera originale che, quindi, non leggeremo mai. Una triste storia quella del Globe, che ci consente, almeno per una volta, di parlare di eventi infausti ed opere shakespeariane, senza dover per forza tirare in ballo la più sfortunata delle tragedie del bardo.

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Presunta ricostruzione dell’interno del Globe Theatre dell’artista Walter Hodges
(2014, Folger Shakespeare Library, CC BY-SA 4.0, Wikimedia Commons)

Illeggibile no, ma innominabile sì, la tragedia del “Macbeth” fu tale non solo sul palco, ma anche nella vita reale. Quasi ogni sua rappresentazione ebbe problemi apparentemente legati all’aura di sventura che il dramma sembra portare con sè. Già nel 1703, durante la rappresentazione, ci fu una delle tempeste più terribili della storia d’Inghilterra, motivo per cui, la Regina Anna giudicò il suo contenuto blasfemo e ordinò una settimana di preghiere all’intero regno. Ma facciamo un passo indietro e giungiamo alla presunta prima rappresentazione della tragedia: era il 1606, quando l’attore che impersonava Lady Macbeth, morì sul palco per una febbre fulminante. Shakespeare in persona dovette interpretare Lady Macbeth al suo posto, ed il dramma fu bandito dai teatri per 5 anni. Nel 1672, ad Amsterdam, l’attore che interpretava Macbeth sostituì la spada di scena con una reale, colpendo a morte Duncan di fronte agli spettatori. Per oltre un secolo, il dramma non fu portato in teatro se non per qualche rara occasione. Nei secoli successivi la grande tempesta del 1703, i disastri proseguirono: tra tentativi di linciaggio, scontri con la polizia, attrici quasi strangolate, set crollati, sale dei costumi incendiate, improvvisi mutismi, ricoveri, morti e feriti. Nel 1937 l’attore e regista Olivier Laurence, allora trentenne, rischiò la vita durante una rappresentazione del Macbeth quando cadde un pezzo della scenografia sul palco dell’Old Vic, sfiorandolo di pochi centimetri. Nei giorni successivi, l’attrice che interpretava Lady Macduff fu coinvolta in un incidente stradale mentre si recava al teatro e, lo stesso anno, il proprietario del teatro morì di un attacco cardiaco durante le prove costume. Nel 1942, gli attori che interpretavano Duncan e due streghe morirono, ed il costumista si suicidò. Nel 1948 l’attrice che interpretava Lady Macbeth, fu colta da sonnambulismo e cadde dalla tribuna da un’altezza di 5 metri. Nel 1953, l’attore e regista Charlton Heston, subì ustioni alle gambe durante una rappresentazione all’aperto della tragedia, a causa di alcune fiaccole di scena mosse del vento. Nel 1971, il Macbeth rappresentato dell’attore Dadid Leary, fu colpito da due incendi e sette furti.

È facile capire, a questo punto, perché viga la ferrea regola per cui nessun attore debba mai pronunciare in teatro il nome di “Macbeth”, piuttosto, ci si riferisce alla tragedia come “l’affare scozzese” o semplicemente “quello spettacolo”. Alla fantasia ed alla superstizione (“non è vero ma ci credo” avrebbe detto de Filippo), si mescola il mito: secondo la leggenda, Shakespeare, nel comporre la tragedia, avrebbe utilizzato incantesimi di stregoneria reali, per cui, ogni volta che si nomina il Macbeth, si finisce per invocare gli spettri e le streghe del dramma, che tornerebbero dall’oltretomba per causare incidenti e portare mala sorte. Che ci crediate o meno, non entrate in un teatro pronunciando “quel” nome o rischierete di essere linciati.

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La prima pagina del Macbeth dal primo folio
(2021, PastelKos, CC BY-SA 4.0, Wikimedia Commons)

Lì dove l’uomo non ha potuto e la sorte non ha infierito, è arrivato, invece, un essere tanto adorabile quanto imprevedibile. Parliamo del miglior amico dell’uomo per eccellenza, fonte di gioia e disperazione per ogni proprietario: il cane. Dal 1680, Isaac Newton, iniziò a coltivare le sue segrete ossessioni per l’alchimia ed i rami più oscuri della teologia. Durante un periodo di esilio accademico auto imposto, lontano dalla sua Cambridge, lo scienziato, cercò di scoprire l’unità di misura usata dai costruttori delle piramidi. Pensava, infatti, che gli antichi egizi fossero stati in grado di misurare la Terra e che, sbloccando il cubito della Grande Piramide, anche lui sarebbe stato in grado di misurarne la circonferenza. Sperava che questo lo avrebbe condotto verso altre misure antiche, necessarie per svelare l’architettura e le dimensioni del Tempio di Salomone, il primo dei tempi di Gerusalemme, legato, secondo la tradizione, alla venuta dell’Apocalisse. Ma cosa scoprì il matematico che ha gettato le basi della fisica classica, ha formulato le leggi del moto e la legge di gravità? Non lo sapremo mai, e per questo dobbiamo ringraziare Diamond, il segugio di Newton, che, a quanto pare, saltò sul tavolo dove erano raccolti tutti gli appunti e le ricerche del fisico, rovesciò una candela e appiccò un gran bell’incendio. Ogni proprietario di cane, a questo punto, non si stupirà più di tanto… abbiamo visto di peggio.

Dunque, cari insegnanti, smettete di guardar male i vostri studenti quando vi dicono che i compiti li ha mangiati il cane e pensate, piuttosto, al povero Newton e agli anni di lavoro finiti in fumo. E voi, cari attori teatrali, ricordate che mai mai mai e poi mai dovrete pronunciare “quel” nome, e se proprio dovesse sfuggirvi, non dimenticate: uscite dal camerino, girate su voi stessi per tre volte, sputate e quindi bussate per entrare nuovamente in camerino. È l’unico modo per salvarvi dalla maledizione (e anche per evitare le ire funeste di tutto il resto della compagnia). Infine, cari bibliotecari e lettori tutti, non per mettervi troppa ansia, ma vi comunico che inizierò a leggere più attentamente le istruzioni di utilizzo per quel vecchio estintore che mi fissa da anni dall’angolo della sala di lettura della biblioteca… non si può mai sapere.

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Incisione dell’incendio che colpì lo studio di Newton
(2008, Morel, CC0 Public Domain, Wikimedia Commons)

I libri illeggibili una rubrica a cura di Angela Finelli per The BookAvisor.

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Angela Finelli

Classe 1987. Nata a Napoli, tra i vicoli e l'odore del ragù lasciato a "pappuliare" a fuoco lento già dall'alba. Amante dei libri da sempre, della buona cucina e delle mete insolite. Dipendente dal caffè, dalle risate spontanee e da quella punta di follia che rende la vita imprevedibile. Fiera sostenitrice del potere delle parole e dei sussurri nascosti tra le righe, quelli che lasciano un'impronta nella memoria e i brividi sulla pelle.

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