Di Versi in Versi

Di Versi in Versi: “Quale confine” di Gabriella Grasso

Per “Di Versi in Versi”, vi proponiamo la lettura di “Quale confine” di Gabriella Grasso, edito da Kolibris Edizioni.

Per “Di Versi in Versi”, vi proponiamo la lettura di “Quale confine” di Gabriella Grasso, edito da Kolibris Edizioni.

Coerenza e abisso, nell’esordio poetico della Grasso

Il libro parte da un delineamento del mezzo, mezzo inteso non come strumento, ma come centro, limbo, stasi, o come lo si preferisce definire. Quale confine è, infatti, il titolo. Che richiama l’interrogativo, ma tralascia la punteggiatura. E poi è un susseguirsi, nelle varie sezione, di elementi interconnessi che si pongono nel “tra”: sei le sezioni, si parte con il “tra me e te”, si finisce con un “tra il vetro e le mani”. Nel mezzo – tema di perpetua evocazione – il sacro, il mistero, la verità e il suo opposto, la natura, i luoghi (che tanto sembrano essere cari all’autrice), ma soprattutto la filigrana delle parole.

Tutto coerente, semantica che segue la scelta precisa delle parole. Eppure la raccolta si apre con una dedica che scardina la superficie degli intendimenti:

A mio padre

Io e lui, dentro la poesia

E allora il “tra” non è più da comprendere come linea di demarcazione tra un qualcosa/qualcuno e un altro qualcosa/qualcuno. Ma da avvicinare all’immagine della torcia di un minatore, che lavora – nel caso di specie con le parole – nel buio naturale che il dolore provoca, e rimane aggrappato alla luce, a cui sarebbe intelligente non rinunciare mai.

Dal canto della perdita, alla poesia come “risposta”

E allora, con questa nuova e più ricca visione, proviamo a percorrere il cammino che la Grasso ci indica. Prima tappa: “Tra me e te”, che sembra indicare un mondo – terzo protagonista della “storia” poetica – che si crea per evitare di stare a guardare il solco vuoto lasciato da chi non è più.

«per il mondo

sono dovuta diventare

account

un numero, un contatto

su cui fare distrattamente

conto

un riferimento come un altro».

Oppure diventa pretesto, questo mondo, per comprendere la naturalezza dell’incontro con l’Altro: «Quale sfondo / se l’ascolto e il racconto / il migrare e l’incontro / saranno per noi / il solo modo di stare nel mondo».

La torcia è ancora accesa, pronta a svolgere il lavoro per cui è stata creata, e appropriamo nella terra del “Tra l’albero e il cielo”. Dove ancora ritorna l’incontro: con la pineta, i lavoratori di Piano Provenzana, ma più in generale con la natura testarda «che fai della vita / un momento di canto / e fai della morte / un momento di ascolto / e confondi / perché muori e rinasci».

La parola morte viene pronunciata con un certo coraggio, scevra dall’inflazione, non conosce definizione, appare, è, sente e si fa sentire, nel suo essere intimo e nel suo opposto: «Dopo l’incontro con la morte / è sempre / un diverso tornare alla vita».

Poi è la volta del confine “Tra il falso e il vero”, come se ci fosse qualcosa che possa davvero definirla questa demarcazione, come se davvero esistesse una definizione netta, oggettiva e incontrovertibile di ciò che è verità o il suo contrario. Non c’è mai univocità nella voce poetica della Grasso. Ed è proprio questa la sua forza, quella che porta a definirla come poesia che arriva all’essenza, alla verità di ognuno, che si serve dell’abisso per aprire, aprirsi, donarsi all’Altro. L’Altro che fa esperienza della mancanza, del dolore, della solitudine.

«quello che manca / è una tiepida mano / ora / sulla tua spalla», scrive l’autrice, che traccia la linea di un presente perpetuo, fermo al momento della mancanza, che si serve dell’assenza per definire l’umano sentire. Gesti poetici semplici, eppure scarnificanti.

Tra il concreto e il mistero” è invece l’apparizione, la verità soggettiva della Grasso, che non teme di dare un nome al proprio sentire. E allora appare Lori e la loro infanzia comune. Un nome che appare a pagina 48, ma che ci porta a comprendere che appartiene ad ogni segno nero sulla pagina. Il nome che manca così profondamente, da domandarsi se sia mai esistito, tanto è forte l’istinto di rinnegarlo per poter lenire il peso dell’assenza, che c’è, si sente e pesa. E allora anche noi accarezziamo – parafrasando Chandra Livia Candiani – il silenzio che Lori ci spedisce, anche a noi «manca una nota / una sola bastarda parola / Non la trovo / nella mente ora presa d’affanno / è sparita, / mi si spezza il canto».

E dopo questa canto dell’incredula disperazione, arriva il tentativo di superare la sospensione che ci tiene inchiodati nel presente, “Tra ieri e domani”, fermi «alla porta dell’inverno dove il gelo è uno spiffero sottile / incapace di far male / e dove è dolce / restare ad occhi chiusi / e indugiare». Qui la Grasso instaura un vero e proprio dialogo con il lettore, forse non voluto, forse non creduto, ma presente.

Gabriella Grasso

Ha più volte ragione di verità la Grasso quando ci dice che «Si sopravvive a tutto / e poi si muore / dopo notti e notti / senza speranza». Perché non esiste persona – purtroppo – che non abbia fatto esperienza della perdita, umana, di fede, di materia, e non abbia pensato che la speranza non salva, ma illude. Ma la vita, come la poesia – viene da rispondere alla poetessa – ha vari e originali modi per tenerci legati, per aiutarci ad essere ancora, anche quando si crede di non volere più. La poesia è una risposta – come un’altra, qualcuno direbbe – meglio che altre, qualcun altro potrebbe controbattere. Noi siamo grati che nella Grasso la risposta sia stata la poesia, la voce che si fa ascoltare e ci educa all’ascolto di chi è sopravvissuto e tutto e poi «torna / un giorno /a cantare e vivere».

Poi c’è l’approdo: “Tra il vetro e le mani”, che prosegue il cammino lasciato in sospeso nella sezione precedente, che rinnega la barriera di vetro «che frena l’anelito / a vivere, a fare / rischiando così di lasciare / tra le dita solo schegge e frantumi». Ma a questo punto l’ascolto è “disturbato” dal magone – almeno, così è stato per chi scrive – provocato dal calore di una parola che si fa abbraccio. Una stretta fatta di reciprocità e umanità. E gratitudine.

Felicia Buonomo

Felicia Buonomo è nata a Desio (MB) nel 1980. Nel 2007 inizia la carriera giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Alcuni dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e RaiNews24. Attualmente è giornalista presso Mediaset ed è nella redazione di Osservatorio Diritti. Alcune sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog letterari, quali La rosa in più, Atelier poesia, la Repubblica – Bottega della Poesia e altrove. Alcuni suoi versi sono apparti anche su riviste e blog letterari degli Stati Uniti, quali Our Verse Magazine, The Daily Drunk Mag e Unpublishable zine. A dicembre 2020, una poesia – tradotta in francese da Bernard Giusti – verrà pubblicata sulla rivista parigina “L'Ours Blanc”. Altri suoi testi poetici sono stati tradotti in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti. Cura una rubrica dedicata alla poesia su “Book Advisor”. Pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi Editore, 2011), il libro-reportage “I bambini spaccapietre. L'infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni, 2020), la raccolta poetica “Cara catastrofe” (Miraggi Edizioni, 2020) e la raccolta poetica "Sangue corrotto" (Interno Libri, 2021). Dirige la collana di poesia “Récit” per Aut Aut Edizioni.

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