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Paralleli

Paralleli: due libri apparentemente distanti, sorprendentemente vicini.

Vorrei la pelle nera. In un lontanissimo 1967  Nino Ferrer cantava così, con buona pace di Wilson Pickett, Ben E. King, Ray Charles e James Brown.

Avere la pelle nera, dunque. Ma dove, come e quando?
Perché non è il colore la questione, piuttosto il colore e il luogo. Il colore e il tempo. il colore e le persone.
Questi due libri sono accumunati da un concetto di “attraversamento” di confini, culturali, temporali, fisici.

Libro n. 1:
Il giorno mangia la notte

di Silvia Bottani, SEM editore

Fadida, marocchina residente a Milano da molti anni rimane vittima di una rapina.
A strapparle la borsetta e la modesta catenina che porta al collo è un uomo disperato che ha bisogno di soldi, subito.
Uno come Giorgio, un bravo pubblicitario in quella Milano da bere che da anni non esiste più. Uno che poi certi fallimenti, certi fallimenti, poi il gioco d’azzardo, poi la coca, l’alcol e il fare finta di riprovarci ogni volta, senza rendersi conto dell’abisso dal quale fa sempre più fatica a riemergere.
Suo figlio Stefano, giovane avvocato rampante non perde occasione per vergognarsi di lui, anche perché l’ambiente di estrema destra che frequenta poco tollera i falliti di quel genere. Razza forte, pura e dura quella che Stefano ammira. Spedizioni punitive e credo politico inossidabile.
Stefano ha trovato in questi ideali politici la sicurezza e la stabilità di cui ha bisogno e non perde occasione per ribadirlo al mondo.
Ma la vita, si sa, a volte ci si mette di traverso.
A volte è un granello piccolo piccolo a mandare in tilt un intero ingranaggio.E quel granello, in questo romanzo, è un fatto di poco conto, una vigliaccata che accade nella palestra dove sia Naima, la figlia minore di Fadida che Stefano praticano kick boxe.

Silvia Bottani ci rende partecipi di un combattimento a quattro. Sul ring la coppia madre e figlia e padre e figlio si affrontano, si intersecano e si combattono.
Da questo libro si esce graffiati, sudati, per alcuni versi perfino esausti. Chi per averci provato, chi per aver vinto. Chi per essersi arreso.
Ma si esce anche soddisfatti per aver potuto vedere un po’ più in là, in quel territorio sorprendente che si chiama “possibile”.


Libro n. 2: Legami di sangue

di Octavia Butler, Sur edizioni

Dana e Kevin sono una bella coppia. Si sono trasferiti da poco in una nuova casa, è il 1976 e il loro futuro come scrittori sembra davvero promettente. Dana ha la pelle nera, Kevin bianca. Ma nella progressista California questo non sembra essere un problema.
Lo diventa però nel momento in cui Dana viene risucchiata nel passato. Più precisamente nel 1815, in una piantagione del Maryland, dove il suo status di intellettuale è semplicemente inconcepibile e la sua unica chance di sopravvivenza è quella di adeguarsi alla condizione di schiava.

A rievocare Dana nel passato ogni qual volta si trovi in pericolo di vita è Rufus, il figlio del proprietario della piantagione e suo lontano antenato.
Le radici di Dana derivano infatti dall’antica unione tra Rufus e Alice, bambina nera nata libera in un mondo di schiavi, ed è quindi e la protezione di questa donna venuta dal futuro che consentirà l’unione dei suoi progenitori e la conseguente nascita dell’intera famiglia.

Octavia Butler manipola il tempo con grande sapienza e fa della linearità un elemento superfluo.
Ogni viaggio diventa una sorta di ritorno e quando in uno di questi richiami temporali Dana riesce a portare con sé il marito, il carico emotivo diventa ancora più intenso in quanto le questioni fra oppressori e oppressi, fra libertà e schiavitù, dignità amore e violenza diventano parte di un passato con cui dover fare i conti.

“L’epoca, l’anno era tutto giusto, ma la casa era straniante. Mi sentivo fuori luogo perfino nel mio tempo. L’epoca di Rufus aveva una realtà più nitida, più potente. Il lavoro era più faticoso, gli odori e i sapori erano più forti, il pericolo più intenso, il dolore più violento… L’epoca di Rufus mi costringeva ad affrontare prove che non avevo mai affrontato, e rischiavo di morire se non mi dimostravo all’altezza. Era una realtà forte e vigorosa, che la dolce comodità di quella casa, di quel presente, con tutti i suoi comfort, non sarebbe mai riuscita a eguagliare.”

Roberta Frugoni

Copywriter per lavoro e passione. Amante dell'arsenico e vecchi merletti, mangio la pasta solo se è al dente e mi lascio conquistare dalle riletture. Nel tempo libero fotografo e collaudo amache.

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