“L’isola di Arturo” di Elsa Morante: recensione libro

La solitudine costipa i pensieri. Se sono chiari si rischia di annebbiarli. Si rimugina spesso sulle cose passate senza menare un parola da pari a pari. Puoi avere tutte le idee che vuoi, ma a camminare con scarpe spaiate sarebbe quasi come essere orbi. Non c’è un parallelo, una doppia visione, che portano al confronto.

Si guarda una cosa, poi un’altra, senza allineare i pensieri a quelli degli altri dai quali arrivano spunti di riflessione. La solitudine rafforza e fiacca l’animo. Aiuta a fare ordine, a capire le priorità di certi momenti. Eppure, se è selvaggia impolvera i sorrisi. Capire la vita è un conto, farle perdere la verve è un altro. La solitudine sottolinea le mancanze, inacidisce la gentilezza. L’entusiasmo in solitudine sbiadisce, fa rimanere in silenzio e poi, all’occorrenza,  si fa fatica ad articolare un discorso. Tutto ciò potrebbe portare anche alla disfemia emotiva che, a pensarci bene, è peggio del mutismo. La solitudine è una liturgia sconosciuta, qualcosa che per un suo ordine deve passare dal rovescio delle cose. Serve però, in alcuni periodi. Rinfresca e apre la mente ad una visione diversa della vita e di se stessi. Insomma, porta coraggio.

Nel libro L’isola di Arturo di Elsa Morante siamo a Procida. Arturo si affida alla memoria, di sé bambino e poi maggiormente nell’avventurosa isola che lo vede quasi sempre da solo anche quando il padre, un mezzo tedesco, fa un salto nel suo castello. Arturo si strugge nel pensare alla madre che non ha mai conosciuto, morta nel darlo alla luce. Lui, che vive nel nome di una stella, esperienze che di consumano nella solitudine di sogni ed ambizioni. È istruito, Arturo. Legge molto. Gli mancano i modi, ma non l’intelletto. È sprezzante, si difende. 

Il romanzo è di un bellezza prepotente. La scrittura ti schiaffeggia tanto è corposa e piena.

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“L’isola di Arturo” di Elsa Morante, edizioni Einaudi. Dream Book.