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“Elegia Americana” di J.D. Vance: recensione libro

Elegia Americana (in lingua originale “Hillbilly Elegy”, un titolo molto più calzante) è la storia di formazione di un giovane ragazzo nell’America della Rust Belt. Il protagonista – che è anche l’autore del romanzo – fin dall’introduzione inquadra i propositi che l’hanno portato a scrivere questo libro.

Qui vi racconto la vera storia della mia vita, ed è la ragione per cui ho scritto questo libro. Voglio che la gente sappia cosa vuol dire arrivare quasi a perdersi, perché può succedere a tutti. Voglio che sappia come vivono i poveri e qual è l’impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cos’ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia. Voglio che capisca in cosa consiste realmente il cosiddetto ascensore sociale. E voglio che capisca una cosa che ho scoperto solo di recente: chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dietro per sempre i fantasmi della vita che si è lasciato alle spalle.

Parole forti che ti aiutano ad inserirti subito nel mood del racconto. Elegia Americana in fondo ha tanti aspetti che potrebbero accomunarlo ad un romanzo famigliare, perché di famiglia si parla, quella strana e disastrata di Vance, quella in cui è normale tenere una decina di armi in casa, in cui si litiga come dei forsennati e si assiste ai litigi dei vicini aprendo le finestre, quasi come se fosse una sit-com in diretta.

Romanzo di famiglia, ma anche di formazione. Il racconto in prima persona di un ragazzo che riesce a superare tutte le condizioni ambientali negative facendo dei piccoli passi verso la normalità, ma guardandosi sempre indietro, a volte con paura, a volte persino con nostalgia. La formazione di J.D. Vance, in particolare, è determinata dalla figura della nonna, che sostituisce in tutto e per tutto la madre e lo aiuta con il suo affetto e i suoi modi rudi a diventare un uomo pronto a perseguire il sogno americano.

Le conseguenze della crisi

Siamo ormai abituati a sentire economisti, esperti e politici parlare della grande crisi che investì proprio l’area del Midwest di cui parla l’autore (lui in particolare parla del Kentucky e dell’Ohio) con discorsi che si staccano dalla vera esperienza di chi quella crisi l’ha vissuta sulla sua pelle. La deindustralizzazione, il razzismo, i problemi educativi, la dipendenza da alcool e farmaci, la droga.

Problemi che ci sembrano lontani così descritti, ma la bravura di Vance è quella di trattare di questi argomenti quasi come se fosse un saggista, ma con la viva voce di chi ha vissuto con persone che hanno distrutto la propria vita (e condizionato quella degli altri). In particolare la madre, la figura più negativa di tutta la narrazione, quella investita in pieno da tutti questi disordini.

elegia americana
Gleen Close e una irriconoscibile Amy Adams, protagoniste dell’adattamento cinematografico del romanzo. La Close è candidata all’Oscar per la Migliore attrice non protagonista nell’edizione 2021 degli Academy Awards

Quando si parla della madre il racconto si fa più cupo e soprattutto più realista, in definitiva ho trovato proprio quelli i migliori passi del libro di Vance.

Ma cos’è un hillbilly?

Lo spiega in un altro passo decisivo lo stesso Vance:

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per capire la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari.

Qualcuno definisce gli “hillbilly” persino dei “mezzi neri“, quindi degni di essere trattati come loro – notoramiente l’etnia più discriminata della storia degli Stati Uniti d’America – e di non avere la possibilità di accesso ad un futuro radioso, come ogni nuovo americano spera, quando arriva sul suolo USA.

In maniera coraggiosa, autoironica, ma anche estremamente colta, Vance descrive la propria etnia, il proprio popolo, mettendone a nudo i più grossolani difetti, ma anche tutti i maggiori pregi, in definitiva tracciando una linea rossa che congiunge la nascita di un piccolo hillbilly al suo possibile futuro.

Per questo la traduzione in italiano del titolo del libro, in definitiva, non rende. Quella che Vance scrive non è un’elegia del popolo americano, ma del suo popolo, una minoranza terribilmente colpita da una serie di fattori economici e sociali che i tanti bianchi privilegiati che vivono nelle grandi metropoli non riescono a concepire.

Da un’Elegia Americana al trumpismo

Questa enorme trasformazione delle vite degli abitanti della regione degli Appalacchi, quindi della Rust Belt, fu decisiva per l’elezione di Trump nel 2016. Un popolo che generalmente votava democratico ha deciso l’elezione di un ricco bianco, suprematista, perché si è sentito abbandonata dall’elité democratica, e non si è sentito rappresentato da Barack Obama negli 8 anni della sua presidenza.

Ma Obama sembra un alieno a tanti abitanti di Middletown per ragioni che non c’entrano nulla con il colore della pelle. […] È brillante, benestante e parla come un professore di diritto costituzionale – perché lo è, naturalmente. Non ha niente in comune con le persone che ammiravo nella mia adolescenza: il suo accento – pulito, perfetto, neutro – è estraneo; ha vissuto quasi tutta la sua vita a Chicago, una metropoli; ed è cosi sicuro di sé perché sa che la moderna meritocrazia americana è fatta per lui. Ovviamente, ha dovuto superare anche lui delle avversità – avversità familiari a molti di noi – ma questo è accaduto molto tempo prima che salisse alla ribalta. Il presidente Obama è apparso sulla scena proprio quando molti membri della mia comunità cominciavano a credere che la moderna meritocrazia americana non fosse fatta per loro. Sappiamo di non essere all’altezza.
Barack Obama fa risaltare le nostre insicurezze più profonde. E un buon padre mentre molti di noi non lo sono. Indossa abiti adeguati alla sua posizione mentre noi indossiamo la tuta, se siamo così fortunati da avere un lavoro. Sua moglie ci dice che non dovremmo dare da mangiare ai nostri figli certe cose, e noi la odiamo per questo: non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione.

Elegia Americana è un completo viaggio nella mente, nelle tradizioni, nella cultura hillbilly e di una parte dell’America che conta – esattamente come la modernissima Silicon Valley, la luminosa New York, l’istituzionale Washington – e ci aiuta a capire molte cose di un paese che, di fatto, in ogni minuto condiziona le nostre vite.

J. D. Vance ha scritto un libro di memorie che è prezioso non solo da un punto di vista saggistica, ma aiuta anche ad indagare alcuni aspetti della nostra vita familiare. Mi è capitato, da italiano del Sud, di ritrovare tanti tick della famiglia di Vance in quella mia (l’ossessiva presenza di zii, nonni e cugini nelle vite di ognuno di noi, il pessimismo perenne e il senso di abbandono nei confronti dello Stato, il filo sempre sottile che congiunge un buon quartiere da un quartiere pessimo) e per questo di prendere qualche minuto in più alla fine di ogni capitolo per riflettere.

“Elegia Americana” di J. D. Vance, edizioni GarzantiSegnaLibri

Benedetto Greco

Giornalista pubblicista e graphic designer. Mi occupo principalmente di sport, amo perdermi nei libri, comprarne di nuovi, vederli vicini a me, e farmi abbracciare dalle loro storie.

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